Il commovente racconto di Massimino affetto da Coronavirus

Dopo aver attraversato il reparto Covid-19 dello Spallanzani ora è tornato a casa e ci racconta il suo vissuto

La tragedia la si immagina sempre distante. La povertà, la guerra, la malattia. Invece, d’un tratto ci si scopre deboli, senza difese, in balia di un virus piccolo, addirittura invisibile, ma mortale. E si vede con occhi diversi al valore della vita, degli affetti vicini “La cosa più importante” racconta a Interris.it Massimino, un uomo che ha avuto il Coronavirus e lo ha sconfitto allo Spallanzani di Roma.

Il Coronavirus è in me

“La prima fase che ho vissuto è stata caratterizzata da un forte stato di ansia che si è manifestato di fronte ai primi sintomi. Poi la paura che non si trattasse di una banale influenza. Un giorno ho deciso di chiamare il numero verde e mi sono sorpreso del fatto che la situazione poteva essere gestita con molta più normalità. Invece è subentrata una modalità alquanto caotica, che mai avevo sperimentato prima d’ora. Per questo motivo, la conseguenza immediata è stata la psicosi, perché mi sono ritrovato in uno stato per me sconosciuto. All’inizio avevo pensato che bastava riposarsi, mettersi a letto qualche giorno per riprendersi. Mi convincevo che si trattasse di una semplice influenza. Ma così evidentemente non era. Da qui, sono entrato in quella che definisco seconda fase. Lo stato di emergenza personale. Insieme ai miei familiari ho chiamato l’ambulanza per la seconda volta. Gli infermieri, accorsi immediatamente, hanno cercato di calmarmi. Secondo loro ero comunque in condizioni buone.

La positività del tampone, il crollo morale

Una volta all’ospedale è stato un saliscendi di emozioni. Lì ho appreso della mia positività al Covid-19 e della polmonite cronica. Solo chi ha vissuto un momento del genere sa cosa significa psicosi, paura, insicurezza. Devo ammettere che ho avuto un crollo morale. Non potevo crederci. Poi, però, è sopraggiunta la rassegnazione. Bisognava solo stare calmi e combattere. I dottori mi hanno tranquillizzato dicendomi che mi avrebbero trasferito all’Istituto per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma. Un centro di assoluto prestigio. Questo fatto mi ha rincuorato. Avevo la patologia ma la struttura dove mi avrebbero portato era una delle migliori d’Europa. Ma questa contentezza si è presto trasformata in un incubo dai risvolti bui. Ho atteso 18 interminabili ore un’ambulanza che non arrivava mai. Ore in cui i pensieri si sovrapponevano l’un l’altro. Mantenevo il contato con la mia famiglia, la quale si è adoperata per cercare una soluzione che potesse sbloccare questo stallo. Ho letto di un articolo uscito sul vostro quotidiano Interris.it che sicuramente ha smosso le acque. Come vediamo in questi giorni l’informazione, il racconto delle storie è importante, fondamentale.

L’arrivo dell’ambulanza, allo Spallanzani

Comunque dopo quelle ore, è sopraggiunta finalmente l’autoambulanza. Mi trasferivano allo Spallanzani. Una volta arrivato, sono stato messo in isolamento con un’altra persona nel reparto Covid-19. Lì è emerso un sentimento potente: una voglia di vivere, anche per cento anni, un vigore fisico e mentale che cercava di barcamenarsi, di tirare fuori gli artigli per battere quel maledetto virus. Mi trovavo chiuso 24 ore su 24, fermo su un letto, con una mascherina che mi permetteva di respirare, la febbre alta. Ma quella vitalità come il pensiero dei miei familiari hanno fatto la differenza. Un aneddoto mi sento di dover raccontare che restituisce un po’ la cifra delle giornate. Per togliere la buccia ad una mela con un coltello di plastica impiegavo 25 minuti. Ma continuavo a tagliare. Quella immagine è per me l’effigie dell’attaccamento alla vita. Non avevo appetito, né gusto, ma sapevo che dovevo mangiare per non far abbassare le miei già flebili difese immunitarie.

La vicinanza delle persone care

La cosa più importante per sconfiggere il Coronavirus è la vicinanza alle persone care, paradossalmente. Una vicinanza che non deve essere solo fisica, anzi in questo momento non può essere fisica, ma sentimentale. Devo dire che il contatto con mio cugino professore e diabetologo, mi ha aiutato a non mollare. Ho ricevuto il calore di tanta solidarietà da persone vicine e anche lontane con le quali non avevo un rapporto nel quotidiano ma che mi chiamavano ugualmente tutti i giorni. Vorrei ringraziare tutti gli amici, parenti e colleghi che mi sono stati incredibilmente vicini e in special modo mia cognata Barbara e mia nipote Susanna, le quali si sono messe in gioco in prima persona. Inoltre, voglio ringraziare tutti gli operatori sanitari: ho visto con i miei occhi infermieri in uno stato infernale e ho provato una stima enorme nei loro confronti. A loro deve andare il nostro più grande e sentito ringraziamento. Senza la loro passione, la loro determinazione e costanza le cose sarebbero andate diversamente.

Il ritorno alla vita. Con occhi diversi

E infine la cosa più bella è stata prendere un taxi per tornare a casa, rivedere i fiori, la famiglia, la casa che non pensavo sinceramente di rivedere. Tutto questo ha un lato positivo, cosi come in tutti i momenti più bui: si rivalutano i veri valori che sostengono la vita. Dopo un’esperienza del genere vengono rivisti, capovolti e cose che ritenevamo importanti diventano d’un tratto meno importanti. In questi giorni sto riacquistando un po’ di  anticorpi e un po’ di forza. Ma il mio pensiero corre sempre in quei corridoi, in quei reparti. E vorrei dare una mano anche io…”