I tre santi contro il coronavirus

Storie di fede e di santità nelle difficili prove delle epidemie

E’ nelle prove più difficili che viene forgiata la vera essenza della fede. Fu così ai tempi delle persecuzioni, lo è stato nella lotta al fondamentalismo cieco e violento… E ancor di più quando a dover essere affrontato è stato un nemico invisibile, che agisce silenzioso, testando la resistenza del nostro credo in modo altrettanto probante di una sofferenza corporale. Perché la malattia colpisce lo spirito dell’uomo, oltre che la sua salute, richiedendo alla sua fede uno sforzo sempre maggiore per far sì che a vincere non siano né lo sconforto né l’abbandono al fatalismo.

Storie di fede

La recente epidemia di coronavirus è solo l’ultima di una lunga serie di morbi che hanno colpito, anche duramente, il nostro Paese, attribuendo alla nostra storia un lungo elenco di memorie legato a periodi di estrema sofferenza. Fu la peste, a più riprese, a flagellare l’Italia del passato, così come le varie epidemie di colera che, anche in tempi recenti, misero a dura prova intere città. Momenti di dolore, di smarrimento, di fede resa traballante dall’idea, dettata dalla paura, di essere stati abbandonati. Eppure, proprio in contesti così difficili, la storia ci ha mostrato la presenza di uomini e donne che, affrontando le avversità, hanno saputo rendere se stessi degli esempi di fede incrollabile, toccando con mano le piaghe degli ammalati per incarnare in pieno la loro vocazione di religiosi. Fra la gente e per la gente.

Il miracolo di Palermo

C’era la peste a dilaniare la città di Palermo nel 1625, quando il “saponaro” Vincenzo Bonelli, disperato per la perdita della giovane moglie uccisa dal morbo, salì il Monte Pellegrino per porre fine alla sua vita. E fu lì che accadde il miracolo: al giovane apparve una figura di donna, che lo condusse alla vicina “cella pellegrina” appartenuta all’eremita e santa Rosalia di Sinibaldo. Fu lei a condurlo verso la città, esortandolo a pentirsi e a rivolgersi al cardinale Giannettino Doria, affinché cessasse la disputa sulle sue spoglie (ritrovate il 15 luglio del 1624 grazie alla visione di Girolama la Gattuta) e che queste fossero portate in processione per Palermo, intonando il Te Deum Laudamus, sulle cui note la peste avrebbe cessato di tormentare i siciliani. E così il 9 giugno 1625, durante la processione delle ossa della Santa, nel preciso momento in cui la lode a Dio fu intonata si bloccò il contagio della peste, mentre molte persone iniziarono a guarire pubblicamente. Il numero dei morti diminuì fortemente (da oltre 50 al giorno si passò a due decessi ogni tre giorni) fino a cessare del tutto al 15 luglio, nell’anniversario del ritrovamento delle ossa. Fu quel miracolo, celebrato non più tardi di un anno fa con la mostra “Rosalia eris in peste patrona” nel Palazzo Reale di Palermo, che fece della santa la patrona della città, salva dal flagello della peste grazie alla sua intercessione.

I salesiani a Borgo Dora

Nel 1854, a Valdocco, l’oratorio di don Giovanni Bosco accoglieva ragazzi di ogni età, che lì trascorrevano parte delle loro giornate studiando, giocando insieme e imparando il valore della preghiera. Nei difficili anni dell’Italia pre-unitaria, il prete astigiano sviluppò la sua importante pastorale fra i giovani di Torino, costretti ad abbandonare la scuola e a lavorare (spesso in situazioni di sfruttamento) fin da bambini, per dare sostegno alle loro famiglie. Don Bosco li istruisce anche in tal senso, affiancando all’istruzione delle piccole esperienze di lavoro, facendosi garante presso i datori ma pretendendo in cambio il rispetto delle più elementari norme contrattuali. Fu per il suo carisma e la sua già evidente fama di santità che, quando nel Borgo Dora di Torino arrivò il colera, nessuno dei suoi ragazzi ebbe esitazione a seguirlo per le vie della città, nei lazzaretti e negli ospedali, a prestare soccorso, conforto e il supporto della preghiera a chi affrontava la malattia. Nessuno di quei giovani torinesi, umili ma illuminati dalla guida di un santo, avrebbe contratto il colera. Così come il santo aveva promesso loro, qualora si fossero messi al servizio della città “nella grazia di Dio”.

Medico fra i poveri

Sarebbe accaduto di nuovo nei decenni successivi: l’Italia avrebbe affrontato altre volte la dura prova dell’epidemia di colera, che sconvolse la città di Napoli nel 1884 e anche nel 1911, quando le condizioni disperate del popolo convinsero l’Ispettorato della Sanità Pubblica ad attenersi (almeno in parte) alle indicazioni del luminare Giuseppe Moscati. Era già “il medico dei poveri”, famoso per aver seguito la sua vocazione medica nei vicoli della Napoli popolare, annegati nel degrado, nel sovraffollamento e in ogni tipo di difficoltà sociale, portandovi la sua scienza e il suo conforto cristiano. Lui, che il colera lo vide da bambino e lo affrontò da adulto, con la consapevolezza di chi ha dedicato la sua vita alla medicina e la fede propria delle persone sante. Una figura di riferimento per i dimenticati di Napoli negli anni più difficili della città campana, in cui alla malattia corporale si faceva prossima quella dello spirito.