I costi sociali della mancata centralità della ricerca scientifica

Un Paese che non mette al centro la ricerca scientifica è condannato all'impoverimento sociale, economico e culturale. Intervista a Interris.it del professor Roberto Cauda, direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive del Policlinico Gemelli

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Ciò che il Covid insegna all’Italia sulla centralità della ricerca scientifica. A spiegarlo a Interris.it il professor Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore Direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs di Roma. Dal 2009 consulente medico del dicastero vaticano per le cause dei santi.

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Afferma il professor Cauda: “Alla luce della mia non breve esperienza, posso dire una cosa. Il mondo della ricerca scientifica in campo sanitario (quella che io conosco e dove mi sono impegnato) è una scelta di vita bellissima ed arricchente. Una scelta che, come si usa dire in questi casi, rifarei se ritornassi indietro nel tempo, al 1976 quando mi sono laureato in medicina e chirurgia”.Professore, qual è il costo sociale di un’insufficiente attenzione alla ricerca scientifica?

“La disattenzione nei confronti della ricerca scientifica determina da sempre un elevato costo sociale. Ciò si può tradurre nel ritardato accesso ai risultati innovativi che la ricerca genera. Con un impatto estremamente negativo. Ad esempio, sul livello delle cure sanitarie. Oltre al costo sociale, esiste anche un non trascurabile costo economico. Quello per l”acquisto’ dei prodotti della ricerca scientifica da quei paesi che con maggiore lungimiranza la promuovono”.A cosa si riferisce?

“A far corso dal ventesimo secolo, si è determinata una frattura evidente. Tra il limitato numero di paesi al mondo che promuovono, attraverso finanziamenti anche consistenti, la ricerca scientifica e i restanti paesi. Questi ultimi si trovano spesso in una situazione di difficoltà. Legata al ritardo nell’acquisizione e nell’uso dei prodotti della ricerca. E’ quindi importante che la classe politica e la classe dirigente attribuiscano un ruolo prioritario alla ricerca scientifica. Con lo scopo principale di migliorare le condizioni di vita dei cittadini”.La pandemia ci ha colti impreparati anche per anni di tagli alla spesa pubblica a ricerca e sanità. Quali sono le ragioni di questa sottovalutazione?

“La pandemia Covid-19 ha innegabilmente rappresentato un evento improvviso ed imprevisto. Che ha colto non solo l’Italia, ma tutto il mondo impreparato. Ci sono state comunque alcune differenze nella risposta che è stata data dai diversi paesi alla sfida pandemica. E la differenza è dipesa dall’efficienza delle rispettive sanità pubbliche. Il sistema sanitario nazionale italiano è uno dei migliori al mondo. Per quanto riguarda il livello delle prestazioni erogate e per l’universalità dei servizi”.Poi cosa è successo?

“Dall’inizio della crisi economica del 2008 (che ha investito tutti i paesi Italia compresa), il Ssn è stato oggetto di “tagli” spesso lineari e indiscriminati. Nonostante questo è ancora riuscito a far fronte all’emergenza rappresentata dalla recente pandemia Covid-19. Pur nella difficoltà”.Può indicarci la causa?

“E’ difficile individuare tutte le specifiche ragioni dei tagli. Se non l’oggettiva difficoltà economica degli ultimi anni. Associata alla speranza che non avrebbe avuto conseguenze negative la diminuzione degli investimenti. Nella ricerca e in sanità. C’è una lezione appresa nel corso della pandemia Covid-19”. Può farci un esempio?

“L’offerta sanitaria rappresentata dalla medicina del territorio è quella che ha più sofferto dei tagli alla sanità. Essa può svolgere un importante ruolo di supporto alle strutture ospedaliere. E ciò soprattutto nel corso di epidemie come quella attuale e quelle che potrebbero verificarsi in futuro”.Rispetto ad altri paesi che ne fanno una bandiera identitaria, perché l’Italia investe così poco in ricerca?

“E’ indubbio che esistono paesi, gli Stati Uniti in testa, che da sempre investono nella ricerca scientifica. Consci che questa rappresenti un sicuro profitto non solo nell’immediato. Ma soprattutto nel lungo termine. L’Italia in questi ultimi anni ha avuto un atteggiamento oscillante. E ciò per quanto attiene gli investimenti da destinarsi alla ricerca. Va del resto ricordato che negli ultimi anni ha giocato un ruolo non secondario la difficile situazione economica. Che ha fatto ritenere non prioritari gli investimenti. Non solo nella ricerca. Ma anche in altri campi critici come l’istruzione e la sanità. C’è un’ulteriore considerazione da fare in riferimento alla ricerca”.bassa pressioneQuale?

“L’esistenza di disposizioni e regolamenti non sempre chiari. Che possono creare ostacoli. Bisogna certamente avere regole per assicurare una ricerca eticamente sostenibile. Ma le regole debbono essere chiare per non creare ostacoli al ricercatore”.Gli scienziati italiani sono apprezzati in tutto il mondo. Ma spesso devono lasciare il paese per proseguire i loro studi. Come si può fermare la fuga dei cervelli?

“Ormai da tempo esiste una criticità rappresentata dalla ‘fuga’ di molti laureati verso l’estero. Specie di formazione sanitaria-scientifica. Le ragioni di questo trasferimento in altri paesi? Risiedono nell’esistenza in questi ultimi di più chiare regole di ingaggio. Di maggiori opportunità di carriera e, non ultimo di più alti stipendi. Il fatto che molti giovani negli anni passati abbiano deciso di compiere questo passo (per molti versi difficile), impone un’attenta riflessione da parte delle competenti autorità. Ciò per apportare in tempi rapidi rimedi utili a non privare l’Italia di personale altamente qualificato. La cui formazione ha richiesto l’investimento di notevoli risorse”.Cioè?

“Ci sono state in passato lodevoli iniziative volte al rientro dei ‘cervelli’. Attraverso leggi e disposizioni che ne favorivano l’inserimento nel tessuto accademico e produttivo italiano. Questo però non è sufficiente. Bisogna agire alla radice. Fornendo delle valide e concrete opportunità ai giovani. Cominciando dai neo-laureati, come si fa in altri paesi europei.  E bisogna anche fare in fretta per evitare questa ‘emorragia’ di risorse”.Lei ha dedicato la sua vita alla ricerca. Affiancandola costantemente all’attività clinica. Quali consigli si sente di dare a un giovane che vuole fare della scienza medica il proprio percorso esistenziale?

“Questa ultima domanda, ma anche anche le precedenti mi consentono idealmente di fare un bilancio. Di quella che è stata la mia attività scientifica (e in più in generale lavorativa) in campo medico in questi ultimi quaranta anni. Questo bilancio inevitabilmente si intreccia con le vicende del nostro Paese. E’ sempre molto difficile fornire consigli specie ad un giovane che si affaccia al mondo lavorativo. E che voglia fare della ricerca scientifica l’oggetto del suo percorso esistenziale e professionale. Come ho già ricordato, è necessario ed urgente che siano date concrete possibilità e opportunità a questi giovani volenterosi”.In che modo?

“Ripensando anche alla mia esperienza personale, ritengo che bisogna non chiudersi. Ma aprirsi all’esterno. Cogliendo tutte le opportunità di confronto con i ricercatori stranieri. Anche attraverso soggiorni, più o meno lunghi, all’estero. E’ importante però che, nel rispetto della volontà individuale, questa scelta di confronto con le realtà estere non sia una scelta obbligata. Ma un opzione possibile fatta in piena libertà”.