Le difficoltà nell’esprimere la genitorialità sono una costante della storia umana, a qualsiasi latitudine; nel mondo contemporaneo, tuttavia, fondato sul piacere, il successo, la competizione e l’immagine, emergono strategie perdenti, in partenza, nel finalizzare un valido obiettivo educativo. In particolare quella che si esprime con affermazioni del tipo “L’importante è che mio figlio/a sia felice”. Si tratta di una dichiarazione molto ricorrente fra i genitori attuali, per i quali, quindi, il fine di ogni scelta e di ogni comportamento del pargolo, è legata soltanto all’obiettivo “felicità”.
Geneticamente, l’essere umano tende a evitare aspetti spiacevoli e a perseguire quelli gioiosi. Tuttavia, a quale prezzo?
Nessun genitore augurerebbe la sofferenza ai propri figli ma, al tempo stesso, dovrebbe saper valutare quando il piacere del pargolo oltrepassa i limiti educativi, relazionali, cognitivi e affettivi.
L’appagamento tout court è fine a se stesso, se poggiato su comportamenti e stili errati di vita non è auspicabile.
La ricerca inevitabile della felicità, per un figlio, potrebbe realizzarsi attraverso la concessione di pratiche erronee come, a esempio, fumare uno spinello. In tal caso, si realizza l’assioma giustificazione/felicità del genitore, fondato su basi errate e viziando il figlio.
Si tratta di una strategia educativa non solo inefficace bensì dannosa. La felicità a tutti i costi tende, a volte, a ignorare aspetti importanti e a deviare da un’educazione responsabile.
È importante motivare e non mortificare le aspirazioni del bambino ma, al tempo stesso, sanzionare comportamenti negativi. La sanzione non deve giungere ad altrettanto biasimo e, soprattutto, deve essere spiegata, non lasciata ambigua, non deve affossare.
Il bambino, in misura maggiore rispetto a un adolescente, tende a considerare, in assoluto, solo le polarità opposte, tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Compito del genitore, nel distribuire i “sì” e i “no”, è di alimentare la presenza della via di mezzo, del principio “in media stat virtus”.
Un bambino sereno è quello al quale è stato spiegato che è il comportamento a essere corretto o scorretto non la persona.
Il 16 novembre 1987, durante il discorso ai partecipanti a un Congresso Internazionale sul tema famiglia-felicità, San Giovanni Paolo II, affermò “la fede cristiana ha rivelato all’uomo che oltre l’ordine dei beni del corpo e l’ordine dei beni dello spirito nella loro ordinata gerarchia, esiste l’ordine dei ‘beni della carità soprannaturale’. […] L’uomo cammina verso la felicità vera, quando questo triplice ordine dei beni è rispettato. […] Il bambino può apprendere in maniera vitale quell’ordine dei beni di cui ho parlato, secondo la loro giusta gerarchia. Da essa, egli deve anche essere difeso da tutto ciò che impedisce all’uomo di raggiungere la vera felicità: attraverso l’educazione all’autocontrollo, alla rinuncia e al gioioso esercizio della libertà nella verità”.
Il confronto reciproco, fra due generazioni, deve essere proficuo e funzionale per entrambe. Il professor Enrico Galiano è l’autore del volume “Scuola di felicità per eterni ripetenti”, pubblicato da “Garzanti” nell’agosto 2022. Parte dell’estratto recita “arriva un momento in cui si è convinti che non ci sia più bisogno di imparare. Ma basta un attimo per capire che le nostre sicurezze, spesso, sono solo un modo per far tacere la paura. […] Grazie ai ragazzi, ci si rende conto che, per quanta strada si sia fatta, per quanta esperienza si sia accumulata, si è sempre eterni ripetenti. Eterni ripetenti alla scuola della felicità”.
Il 20 marzo scorso, in occasione della Giornata internazionale della felicità, è stato pubblicato il World Happiness Report 2024. La ricerca ha evidenziato molti dati e numeri. Fra questi si legge che la Finlandia è la nazione più felice al mondo, l’Italia si piazza al 41° posto. Il Nord Europa primeggia (nonostante i tassi di suicidio siano molto alti), visto che il secondo posto è occupato dalla Danimarca, il terzo dall’Islanda e il quarto dalla Svezia. Osservando le generazioni, si scoprono dati sorprendenti: anno dopo anno, per i millennials (nati fra il 1980 e il 1994) la soddisfazione per la propria vita diminuisce, per i boomers (1946-1964) aumenta.
È fondamentale costruire, in famiglia, un ambiente pacato, equilibrato, armonico, in cui si sperimentano relazioni tendenti alla serenità con la possibilità di dialogo, di confronto e di ascolto reciproco.
Ascolto non significa concessione ma chiarimento su alcuni comportamenti positivi e altri non desiderabili. Il dialogo intergenerazionale consente anche il chiarimento su tematiche di rilievo e il corretto approccio a tutte le situazioni, favorevoli o sconvenienti.
La serenità dei figli deriva da quella dei genitori: questi ritengono di dispensare consigli ma, spesso, sono i primi a nutrire dubbi sulla propria contentezza e sul personale equilibrio esistenziale. Chi ritiene di aver sostenuto scelte errate in gioventù, cerca di instradare (basandosi, tuttavia, sui propri parametri) i figli.
Il permissivismo non aiuta a crescere un figlio secondo il giusto discernimento, a saper imparare dalle rinunce o da transitorie impossibilità. Il consentire di svolgere qualsiasi azione e di avallare qualsiasi sua decisione, pur di renderlo felice, è l’anticamera per una nuova insoddisfazione a cui seguono, ciclicamente, altre richieste e capricci. Non si insegna, in tal modo, a gestire la “mancata felicità”.
L’allegria non si misura esclusivamente nel raggiungimento dei traguardi posti, poiché pochi aspetti sono procedurali e predeterminabili. Non si può avere la pretesa, semidivina, di progettare, definire e stabilire la concreta realizzazione degli obiettivi. Si può riprovare: esiste una seconda possibilità o una soluzione diversa.
Il centrare gli scopi non necessariamente conduce alla soddisfazione; in alcuni è solo una temporanea pausa per presentare altri esosi programmi, in un conto sballato con la vita, in uno squilibrato rapporto contabile di dare/avere.
Alcune volte, l’affermazione suddetta “L’importante che io (tu) sia felice” (riferito a se stessi o a un figlio) è utilizzata in modo consolatorio, per sanare un mancato raggiungimento dell’obiettivo. Anche questo automatismo non è corretto. La felicità è un sentimento che va oltre la compensazione o il “contentino” e, per il livello altissimo che la contraddistingue, non può essere circoscritta solo a eventi contestuali. Si tradurrebbe in un “on/off”, in uno switch da fuori o dentro, una scommessa: se va bene si è in estasi, se va male si è distrutti.
La felicità è riferita, in tal caso, a una dimensione puramente personale, quando la sua vera forza è di natura collettiva: nel sapersi calare nell’altro, nel condividere le gioie altrui e nel chiedere aiuto per i guai propri. L’individualizzazione della felicità può condurre a una sua negazione, a una riduzione, a una valutazione egoistica e alterata. La beatitudine, in quest’ottica, significa soltanto realizzare se stessi.
La tendenza, errata, è nel focalizzare il contraltare della gioia: la tristezza; a volte posta sino alle risultanze del fallimento. La società, attuale, competitiva e iperveloce, conduce a tradurre una festosità mancata con il suo speculare fallimento. La realtà è, ovviamente, diversa e una riflessione più approfondita deve sanare questo automatismo errato.
Un essere umano che non si ritiene appagato, non si deve considerare un fallito, tagliato fuori dalla società. La polarizzazione tende a dividere: felice/vincente vs infelice/perdente.
Il ricorrere frequentemente al concetto di fallimento è la chiave per costruire l’infelicità insanabile; non conduce a ipotesi costruttive e veritiere, anzi proietta verso drammi personali.
Il parametro della letizia è soggetto, spesso, sia da parte dei genitori sia dai figli, al confronto con gli altri, soprattutto nell’era dei social. L’altro, dunque, esiste solo per quantificare la propria felicità. Spariscono, quindi, le motivazioni profonde che sono alla base delle emozioni, degli stati d’animo e degli obiettivi, materiali e spirituali da raggiungere, per far posto all’unica variabile che conta: l’essere felici quanto o più del prossimo.
Tali paragoni sono inutili e infondati né costituiscono l’essenza fondamentale del benessere. Relativizzare la serenità alle foto, ai video, alle parole mostrate dal vivo o sui social, significa rinunciare, di fatto, a comprenderne l’essenzialità. Da ricordare, peraltro, la notevole selettività operata nella scelta del materiale da chi espone on line, riflettente soltanto espressioni di gioia e successo.
Lo scadimento nell’invidia non conduce alla salute personale e collettiva. Se di confronto si deve necessariamente trattare, questo dovrebbe essere una semplice verifica in positivo, osservando esempi di rilievo, cercando di correggere eventuali atteggiamenti personali errati per promuovere, invece, un sano rapporto con il prossimo e con il mondo.
La felicità, infine, non è possesso. Gli ultimi del mondo sanno come e quando essere felici. Non quantificano la gioia, la provano quando scorre anche per loro.
Uno sguardo attento sulla “costruzione” e “gestione” della serenità da parte delle persone più fragili e prive di possibilità materiali (sin dall’infanzia), è l’insegnamento migliore per comprenderla, edificando la propria, espellendo gli aspetti tossici, avvicinandosi a quella più vera, alta e duratura.