Perché un figlio di collaboratore di giustizia è costretto a studiare all’estero

L’intervista all’ex presidente della Commissione centrale di protezione, Luigi Gaetti

In Italia, ci sono 1.319 collaboratori e testimoni di giustizia con quasi 5 mila componenti familiari. Tra questi anche molti ragazzi che, ottenuta la maturità, hanno il desiderio di affacciarsi al mondo universitario. Ma la struttura del sistema di protezione sembra rendere tutto troppo complesso, forse impossibile. È il caso di Nemo (nome di fantasia), ragazzo di 19 anni, figlio di un ex boss della ‘Ndrangheta costretto a fare le valigie per andare a studiare all’estero. “Non posso frequentare l’università nella provincia dove abito. Dovrei spostarmi a mie spese senza più poter usufruire della protezione della località protetta. E non potendo nemmeno lavorare in questa provincia, non posso sostenere le spese aiutando la mia famiglia – racconta il giovane – ma queste sono solo alcune delle ingiustizie che, in questi anni, ho subito. All’estero sarò, comunque, più esposto ai pericoli che derivano dal mio cognome che non posso cambiare. Un cambio definitivo delle generalità che potrebbe risolvere molti problemi”. Una condizione di pericolo che Nemo ha vissuto nel suo nucleo familiare: “Mio padre ha fatto una scelta coraggiosa e di legalità per la quale rischia ogni giorno di essere ucciso. Non riesco a comprendere -continua- perché il passato di mio padre deve ricadere sul mio futuro”.

Difficoltà spesso insormontabili che potrebbero impedire anche nuove collaborazioni: essenziali per la lotta alla criminalità organizzata. “Esisterebbe una soluzione che è quella basata sull’Alias per quanto riguarda il cambio delle generalità all’università” afferma Luigi Gaetti, ex presidente della Commissione Centrale di Protezione e ex vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, intervistato da Interris.it.

Dottor Luigi Gaetti, come funzione oggi il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia?
“Sussiste una differenza tra un collaboratore di giustizia e un testimone di giustizia. Quest’ultimo non ha avuto contatti con la criminalità organizzata e riferisce solo di qualcosa che ha visto. Mentre il collaboratore racconta fatti dettagliati dall’interno. Sono persone che il più delle volte hanno commesso dei reati. I testimoni sembrano essere maggiormente agevolati dalla legislazione”.

In che modo?
“Sono risarciti in maniera più sostanziosa. Possono essere inseriti nel mondo del lavoro della pubblica amministrazione. I collaboratori sono numericamente di più e la loro gestione è molto complessa. Il sistema di protezione è basato esclusivamente sulla sicurezza. Ma in venti anni le necessità sono cambiate: pensiamo ai figli dei collaboratori che vogliono frequentare le università. Un’esigenza che deve essere ancora ben regolamentata per assicurare l’adeguata protezione. Il Sistema Centrale di Protezione deve aggiornarsi”.

Sono diversi i casi di collaboratori di giustizia o di loro famigliari vittime di omicidi di stampo mafioso. C’è un problema di sicurezza?
“L’Italia non è un paese particolarmente ampio e la ‘Ndrangheta si è radicata in territori diversi dalla Calabria. È molto complesso anche a causa della facilità di rintracciamento che, per esempio, i social permettono. Ci deve essere una grande relazione tra il collaboratore e lo Stato perché la ‘Ndrangheta è molto attenta. Per i casi di omicidio bisogna comprendere necessariamente quale è stato l’errore, va individuato tramite delle indagini approfondite”.

Per il collaboratore sarebbe fondamentale un inserimento nel mondo del lavoro?
“Una cinquantina di testimoni sono stati assunti dallo Stato nelle varie amministrazioni. Per i collaboratori questa possibilità ancora non c’è perché è molto complesso. Io avevo cercato di stipulare un accordo con Invitalia che ha un suo budget e che può accedere ad altri fondi. Bisogna però riformulare le white list perché il collaboratore non ha questa possibilità di inserimento. Avevo, inoltre, presentato due emendamenti al Decreto sicurezza di Salvini che non sono passati: uno prevedeva di consegnare, quando idoneo, gli immobili sequestrati alla mafia ai testimoni e ai collaboratori di giustizia ma anche la gestione di alcune società come i ristoranti. Analizzando ogni singolo profilo. Il lavoro è qualità e dignità della vita. Inoltre, l’assegno che i collaboratori percepiscono è minimo”.

Molti figli dei collaboratori hanno difficoltà nell’accedere all’università a causa del mancato cambio delle generalità. C’è una soluzione?
“Nel mondo dell’università già esiste un metodo che si occupa della protezione di quegli individui che cambiano generalità: è denominato Alias. Se un ragazzo, figlio di un collaboratore, si trova a Firenze ed è garantito dal sistema di protezione, può trovare grandi difficoltà a spostarsi a Milano per frequentare l’università. Bisogna parlare con i Magnifici Rettori per definire tutti i dettagli tra cui anche quello economico per il sostentamento di questi studenti. Per i primi anni si potrebbe procedere con casi campione per poi implementare il progetto”.

Ai collaboratori di giustizia è assicurata un’assistenza psicologica?
“Il Servizio Centrale di Protezione ha una sua squadra di psicologi molto professionali e capaci che hanno sede a Roma. In diverse occasioni, hanno svolto corsi per i colleghi delle Asl per permettere di assistere i collaboratori in altre regioni. Ma una delle problematiche principali riguarda il fatto che, se un collaboratore sta riferendo all’autorità dei dettagli importanti mentre usufruisce di un’assistenza psicologica, gli avvocati della controparte possono chiedere l’infondatezza delle sue dichiarazioni. Questa assistenza deve però essere sviluppata ed incrementata”.

Lei ha provato anche a riformare il dialogo tra le istituzione e il collaboratore di giustizia, in che modo?
“C’è una difficoltà di comunicazione tra la Commissione Centrale e i collaboratori e i testimoni. Bisognava creare un sistema di relazione diverso: non mediato. Anche perché ci sono dei casi in cui un collaboratore ha denunciato personale delle forze dell’ordine. E magari agenti facenti parte della stessa arma (il NOP è un gruppo interforze) si dovranno prendere cura della sicurezza dello stesso collaboratore. Il NOP filtra tutto ciò che arriva alla Commissione Centrale e, in più occasioni, ho costatato come le informazioni che giungevano non corrispondevano perfettamente al vero oppure mancavano dei dettagli fondamentali. Pensavo ad un sistema molto più sottile e rapido: progetto sostenuto dal Viminale con un investimento di 300mila euro. Spero che questa riforma stia procedendo”.