Giorgia, il lato bello della lotta

Se c'è un momento in cui Giorgia Butera trova un po' di tranquillità è la mattina. Quando tutto il mondo è ancora sopito, lei resetta tutto: “Mi sveglio con il telefono pieno di messaggi e le notizie dall'altra parte dell'emisfero. In fondo, nel momento in cui dormo, la vita è andata avanti” spiega. Di Giorgia colpisce il suo sorriso, riesco a percepirlo persino in un'intervista telefonica, con il suo accento siculo che s'incrina alla distensione delle labbra: “L'amore verso gli altri fa parte di me” dice. Lo slogan perfetto per Mete Onlus, l'associazione impegnata nel tema della promozione e protezione dei diritti umani dei più vulnerabili e di cui è la presidente. Qualche mese fa, accanto alle battaglie quotidiane per i diritti, Giorgia ha combattuto un'altra lotta, stavolta personale. Un fulmine in un cielo d'estate perché se “la vita è dare agli altri il diritto di vivere”, la liturgia di esami specialistici, visite mediche ed interventi potrebbe incrinare la vita di chiunque. Ma non la sua. Non ha negato i giorni difficili, piuttosto ha imparato ad accoglierli e trasformarli. Oggi, all'indomani di un intervento andato bene e alla vigilia di una chemioterapia preventiva, Giorgia non nasconde la sua determinazione a lottare per le sue cause. 

Giorgia, com'è iniziata la tua avvenuta a Mete?
“Comincio col dire che sono una sociologa e scrittrice. L'amore verso gli altri fa parte di me, in fondo ho sempre amato vedere sorrisi pieni e felici. Per diversi anni ho fatto parte di Emergency. Un giorno decisi d'inviare la mia pubblicazione sulla negazione dei diritti delle donne alle Nazioni Unite. Era il 2014 se ne parlava poco dal punto di vista mediatico. Ricordo di aver inviato il plico senza grandi aspettative di essere presa in considerazione, e invece il giornale di Onu Italia pubblicò il manifesto della mia campagna: quel giorno a New York si è parlato di matrimoni forzati. Da allora è cambiato tutto. Ho abbandonato Emergency e ho poi fondato Mete, che nasce da quest'impegno e viene portato avanti in ogni contesto, da quello siciliano in cui vivo, a realtà come quella di Brescia, dove sono presenti aossociazioni pakistane”. 

In cosa consiste il vostro impegno?
“Innanzitutto, nel dialogo, che è importante per dare un aiuto concreto. Dal 2015, intervengo personalmente al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite di Ginevra per chiedere un impegno sempre maggiore. L'anno scorso in Senato sono stata audita in Commissione giustizia e diritti umani per un disegno di legge sui diritti delle donne minacciate dai matrimoni forzati, perché oggi è importante avere norme che puniscano. Pochi sanno che vi sono comunità radicate in Italia che, seppure integrate, favoriscono questo genere di 'matrimoni'. La ragazze sono vittime consapevoli: loro vogliono essere liberate al primo istante, ma sanno anche che tradiranno le loro famiglie e per questo fanno finta di nulla. Il matrimonio forzato è la negazione primaria del diritto all'esistenza. Molto spesso si diventa mamme giovanissime, a volte si tratta grembi giovani”.

Ricordi delle storie che ti hanno colpito?
“Ricordo di una donna lasciata a digiuno della famiglia perché non accettava di sposarsi. Per una settimana, i genitori le lasciarono una ciotola di riso e acqua. Nel cuore di Palermo. Ma poi anche a Brescia, dov'è ben radicata una comunità pakistana. Con una rafazza bresciana fu una lotta fra noi, perché volevo riuscire a portarla dall'altra parte. Se loro sono rifiutate, vengono espulse dalla comunità. Si tratta di donne sottomesse a una cultura patriarcale e maschilista dove complice è la madre perché non accetta che una figlia si ribelli. La legge italiana sta facendo molto, ma occorre ribadire che si tratta di un problema molto serio”.

Accanto alla tua attività, hai dovuto affrontare una battaglia personale, vero?
“Sì. La malattia è venuta fuori un anno fa quasi e io ho fatto fatica nel credere che fosse vero perché è accaduto durante un esame di prevenzione. All'inizio parte uno stato di caos iniziale, poi si assume la certezza di essere in buone mani, anche grazie a un luminare col quale ho iniziato un percorso di guargione. All'inizio della malattia non ero presente. Poi ho iniziato a raccontare diversi momenti perché molti si sentivano rafforzati da me. L'associazione si è mantenuta, non l'ho mai abbandonata. Per molti resto un punto di riferimento e ho asciugato, consolando, tante lacrime. Quando arriva il momento brutto devi saperlo accogliere, ma non bisonga aumentare la fragilità ed essere pessimisti”.

Come ti percepisci in questo momento?
“Mi sto preparando a chemio e radio preventive, la prima cosa che ho fatto è stata tagliare i capelli: in fondo, l'obiettivo è la vita. Che cosa sarà mai tagliare i capelli? Il mio cammino non sarebbe nulla se non fossi circondata di umanità. È la mia vita: essere dedicata agli altri. A livello personale, ho fatto tanti scarifci finora, ma sono stata ampiamente ripagata. Per me è normale ricevere al mattino, quando mi sveglio, un messaggio dall'India, dall'Africa. Sono una 'raccoglitrice di storie' e questo mi aiuta. Perché è la mia vita”.