Ecco perché un prete decide di entrare in carcere

Intervista a don Saulo Scarabattoli, parroco della parrocchia Santo Spirito di Perugia e cappellano nella sezione femminile del Carcere di Capanne

Don Saulo Scarabattoli. Foto propria

In carcere. Non per espiare una pena, ma per alleviare le sofferenze degli altri: i detenuti. E’ questa la missione che da oltre 25 anni porta avanti mons. Saulo Scarabattoli, parroco della parrocchia Santo Spirito di Perugia e cappellano emerito del Carcere di Capanne. Don Saulo è uno di quei “preti con l’odore delle pecore”, come li definisce Papa Francesco. Vale a dire uno di quelli che si sporcano le mani per stare concretamente vicino al loro gregge. Il gregge di don Saulo non è (solo) la “solita” parrocchia, perché lui svolge la sua opera apostolica anche presso la sezione femminile della casa circondariale di Capanne (comune umbro in provincia di Perugia). Nel carcere femminile ci sono 2 sezioni ordinarie ed una sezione dedicata alle detenute madri e in stato di gravidanza. In Terris ha intervistato don Saulo per comprendere il ruolo e il valore della presenza di un sacerdote dentro una prigione.

La casa circondariale di Capanne (PG)

Salve don Saulo. E’ oltre un mese che non entra nel carcere femminile di Capanne a causa dell’emergenza coronavirus. L’ultima volta che ha incontrato le detenute le ha viste preoccupate per la loro salute? Temevano un possibile contagio in spazi tanto ristretti?
“Sì, avevano paura, ma non angoscia. Una fondata attenzione per cosa stava accadendo nel mondo a causa della pandemia ma non il panico, almeno in quei giorni. Cosa sia successo dopo, non lo saprei dire”.

Il carcere di Capanne ha molte persone al suo interno?
“Non tantissime. Nella normalità, oscillano tra le 70-80 persone recluse. Ci sono poi dei picchi di anche altre 20 persone nuove che arrivano in un solo giorno, quando ci sono i trasferimenti da altre carceri”.

E’ un problema?
“Sì, ma non per la capienza, quanto per farle inserire nel tessuto sociale. D’altro canto, sono spostamenti inevitabili anche per alleggerire il surplus di presenze nelle altre carceri più grandi”.

Il sovraffollamento è una delle piaghe peggiori delle carceri italiane. Anche Capanne è sovraffollato?
“No, non lo è. Tanto che le detenute vengono spostate da altre case di reclusione a questa. Però, per tornare al problema covid-19, nonostante Capanne sia un modello positivo, il distanziamento sociale chiesto dal Governo non è assolutamente praticabile”.

Perché? Come è strutturata la casa circondariale?
“Perché tra un letto l’altro l’unica distanza è quella di un comodino. E’ evidentemente troppo poco”.

Quanti letti ci sono in una cella?”
“Il numero varia. Ci sono celle con due, tre o quattro letti. In situazione di emergenza vengono anche installati i letti a castello. Perciò Capanne non è sovraffollato, ma c’è comunque troppa vicinanza rispetto alle direttive del Governo per evitare possibili contagi”.

Stacchiamoci dall’emergenza e torniamo alla sua lunghissima esperienza tra le detenute: oltre 25 anni insieme a loro. Qual è l’importanza della presenza di un sacerdote dentro al carcere?
“C’è un livello visibile e un livello invisibile. Il livello visibile è quello del rapporto, dell’incontro, dell’aiuto concreto. E’ molto simile a quello che fanno gli altri volontari e operatori che lavorano o fanno opere di bene tra i detenuti. Per esempio, i volontari che donano dei vestiti; la Croce Rossa che dà anche aiuti economici; la Caritas che sostiene nella ricerca del lavoro a fine pena. Questo è il livello visibile e sono cose che faccio anche io nel mio piccolo: sono disponibile al dialogo, cerco di andare incontro alle loro richieste materiali: penne, quaderni, cancelleria varia. E a richieste più personali come poter telefonare alla famiglia. Sul piano visibile, il sacerdote fa un po’ da ponte tra reclusi, struttura penitenziaria e famiglie”.

E il livello invisibile?
“Sono 25 anni che vado a Capanne. Le prime volte mi chiedevo: ma che vado a fare? L’aiuto e il senso profondo del mio operato l’ho trovato nell’icona biblica della visitazione: Maria che va a trovare Elisabetta”.
[Ascolta l’audio di questa e altre risposte in fondo all’articolo, ndr]

Perché? Quali sono le similitudini tra la visitazione della Madonna a sua cugina e la missione del sacerdote in prigione?
“Maria, quando va da Elisabetta, non va a ‘fare qualcosa’. Va lì a salutarla, a stare con lei. E poiché Lei portava Gesù nel cuore e nel proprio ventre, il piccolo san Giovanni a sentire la sua voce esulta di gioia. Quindi, quella del sacerdote è una presenza, prima che un’azione concreta, che nasce da una motivazione diversa da quella degli altri operatori perché espressamente religiosa. Ma, esternamente, quello che si vede è simile a quello che fanno gli altri”.

In 25 anni ne avrai viste e sentite tante. Hai mai scritto un libro delle tue memorie?
“Delle mie no, ma nel 2006 raccolsi la testimonianza di una suora, suor Manfredina, nel libro ‘Da Torcoletti a Capanne. Un secolo di presenza delle suore tra le carcerate di Perugia’, pubblicato a cura della Provincia di Perugia”.

Perché il titolo “Da Torcoletti?”
“Perché Via Torcoletti, nel centro storico perugino, era la sede del carcere femminile prima dell’apertura del complesso di Capanne nel 2005. Lì, all’interno della casa di reclusione, per oltre ottant’anni – dal 1908 al 1992 – è stata presente una comunità di religiose, note come suore del Patrocinio di san Giuseppe, anche se il loro nome ufficiale è Suore di Gesù Redentore. Suor Manfredina, morta pochi anni fa ultranovantenne, ha seguito le recluse dal 1939 agli anni ’70. Nel libro, scritto nel 2006 per ricordare il periodo di via Torcoletti, ho messo dei ‘medaglioni’, vale a dire le storie più significative di donne e ragazze incontrate da suor Manfredina”.

Il libro è in commercio?
“Non più, è esaurito. L’avevamo stampato in 500 copie. Tra l’altro, era stato stampato nella tipografia del carcere di Terni. L’essere stato prodotto all’interno di un carcere gli dona un valore aggiunto”.

Torniamo al suo ruolo ministeriale diverso da quello degli altri operatori e volontari…
“La presenza di un prete in carcere ha uno specifico, quello dei sacramenti: la celebrazione dell’eucaristia e il desiderio della confessione. A volte, non si può fare la confessione perché la persona è di un’altra confessione religiosa. Ciò nonostante, tante donne mi chiedono una benedizione. Alcune hanno anche dimostrato un desiderio di conversione. Ci sono state diverse esperienze di catecumenato: donne che in carcere hanno fatto un cammino di fede grazie all’opera dei catechisti e poi sono arrivate all’iniziazione cristiana”.

Come cambia la vita di Chiesa tra le mura del carcere?
“Cambia, tra le altre cose, il modo di fare l’omelia. Con le ragazze detenute, non si comincia mai dal ‘cielo’, ma sempre dalla ‘terra’; anzi, dal fango della terra. E poi da quello si passa al ‘sole’, che non si sporca con il fango, anzi: illumina le nostre miserie. Quindi, l’omelia deve essere breve: ‘se non bravo almeno breve’ è il mio motto. E concretissima, anche magari partendo da dei fatti di cronaca, da uno spettacolo televisivo o da una lettera personale che è arrivata. Devi insomma ‘scendere’ lì dove loro sono, nel concreto di una vita reclusa e limitata. Per poi camminare insieme verso qualcosa di più alto, quel sole che rende davvero liberi”.

In conclusione: cosa rappresenta il sacerdote per un detenuto?
“Una persona di cui si può fidare!”.