Don Bonifacio, l’annuncio del Vangelo nella gioia del pallone

La storia del prete portiere, dalle Filippine a Roma seguendo la sua vocazione e il suo amore per il calcio

“Da bambino, quando vedevo una stella cadente, il mio desiderio era sempre lo stesso: diventare un prete“. E’ un uomo che ha realizzato il suo sogno don Bonifacio Lopez, filippino di nascita, italiano di adozione ma, come si definisce lui stesso, “un cittadino del mondo”. Perché ha girato tanto don Bonifacio, partito presto dal suo arcipelago natio per rispondere alla vocazione che scelse di seguire fin da ragazzo, correndo dietro alla chiamata del Signore ma senza dimenticare la cosa più importante: essere sé stesso sempre. “In seminario, che si trovava a pochi chilometri da Manila, entrai a 11 anni. In Italia mi spedirono qualche anno più tardi per punizione perché ero una peste. Eravamo in 72 in seminario, solo in due siamo diventati preti“.

Sé stessi sempre

C’è un lato particolare della pastorale di don Bonifacio, parroco ai Santi Elisabetta e Zaccaria, ultima in ordine cronologico delle parrocchie da lui gestite. Un aspetto non convenzionale probabilmente ma che, forse più di tante lezioni teologiche, sa cogliere l’aspetto essenziale dell’evangelizzazione, portando la Parola in contesti fatti di giovani e di gioia: “E’ lo sport la mia vocazione, io evangelizzo con il calcio. Gioco come portiere nell’Anselmiano Vaticano alla Clericus Cup e tante volte mi hanno detto che se avessi avuto qualche centimetro in più avrei potuto giocare in Serie A o B, tanta era, ed è tuttora, la mia voglia di vincere”. Uno spirito, quello sportivo, che ha sempre fatto parte del suo modo di essere, che l’ha aiutato nella vita e che ora utilizza per trasmettere agli altri la bellezza: “Io non ho bisogno di sforzarmi, io sono così. Forse oggi manca un po’ questa vita sociale ai sacerdoti, lo stare con gli altri. Forse dipende dal tuo carattere… Il mio è fin troppo aperto ma per me è normale. Mio padre, quando sono entrato in seminario, un giorno mi disse: ‘Mi raccomando, rispetta i superiori e se ti danno la fiducia non perderla, perché altrimenti non la riavrai mai più’. Parole che mi risuonano tuttora nelle orecchie”.

Il sale

Traspare allegria dalle parole di don Bonifacio, felice di essere un sacerdote così come di essere un calciatore, portiere titolare della Nazionale dei Preti e, soprattutto, parroco appassionato che ama le sue “quattro mura” ma che non esita ad aprirle a ciò che sta intorno: “Ringrazio sempre Dio per questa mia vocazione, lo sport è il mio sale. E’ un’arma in più soprattutto per i ragazzi di oggi, perché noi possiamo parlare di Dio, religione, Chiesa a questi ragazzi così giovani, ma dobbiamo essere lì con loro, testimoniare nel loro mondo. E lo sport fa parte di questo”. L’allegria è il veicolo con cui raggiunge i ragazzi, memore che “la santità consiste nel fare l’opera di Dio con il sorriso: devi soffrire magari ma sorridendo“.

Una forma d’arte

“Lo sport è un’arte – dice don Bonifacio -. Quando si sente questa parola non vuol dire che il prete non vuole lavorare ma che sei felice. Come posso essere vicino ai fedeli se io sono bloccato psicologicamente? Io ho avuto parroci depressi, perché non riuscivano a dare colore alla propria vita. Ma non erano loro a essere sulla Croce, Cristo è morto in Croce. Noi non siamo altro che lo strumento. Noi dobbiamo vivere per testimoniare questa gioia di essere cristiani”. Lo sport lo ha aiutato, lo dice più volte don Bonifacio: “Il mio apostolato è cambiato dopo che sono diventato parroco: ho la libertà di essere me stesso, anche se non al 100% perché ho i miei impegni a cui pensare ma il segreto è proprio questo, essere esattamente quello che sei. E i giovani lo capiscono: le loro famiglie arrivano a chiedermi i sacramenti, magari iniziano a frequentare la Messa”.

I capitani della Clericus Cup. Don Bonifacio è il primo da sinistra – Foto © Clericus Cup

Una pastorale in campo

A calcio ha iniziato a giocare in seminario, nelle Filippine, esportando poi la sua passione ovunque il suo cammino vocazionale lo abbia condotto, toccando anche la Prima e Seconda categoria: “Io ho quasi cinquant’anni e gioco ancora con ragazzi di venti, che si stupiscono per la mia resistenza. Io stesso, tante volte, mi chiedo perché il Signore mi dia tutta questa energia… La questione non è tanto cercare la risposta, quanto agire secondo la sua volontà: il suo disegno per me è stato l’evangelizzazione attraverso lo sport e lì, come in ogni altro ambito, bisogna dare il meglio di sé stessi. E’ solo così che si vedono i frutti della propria vocazione e il vero annuncio del Vangelo”. Senza dimenticare che lo sport è anche luogo di incontro: “Con la Nazionale sono stato a giocare in Palestina, contro la vera Nazionale di calcio locale. Avemmo l’occasione di parlare con i nostri avversari musulmani in uno stadio, l’Al-Khader, vicino Betlemme, dove fummo i primi cristiani a giocare. Dissi a uno di loro che sarei riuscito a tenere la porta inviolata e così fu. Presi di tutto nel primo tempo. Poi mi sostituirono e ne prendemmo otto!”. Un’esperienza di comunione interreligiosa attraverso il linguaggio universale del calcio, forse il più potente: “Lo sport è anche questo: comunione e amicizia, sul campo si è tutti uguali. E chi è scelto come capitano è perché gode della fiducia della squadra. Sarebbe bello che l’esperienza della Nazionale dei Preti fosse conosciuta, perché è davvero una realtà che può dare molto“.

Foto © Clericus Cup

La gioia

Sport e fede non hanno mai dimostrato di essere in antitesi. Il campo da gioco può davvero essere un punto d’incontro, così come l’impegno di essere sacerdote va vissuto con la consapevolezza di fare ciò che si è scelto: “Io sono felice, sono prete da 25 anni e ogni giorno ringrazio Dio per avermi chiamato a seguire questa strada. Era quello che volevo fare e che sono tuttora felice di fare“. Con i suoi parrocchiani, in chiesa come su un campo di pallone. Che, nell’annuncio di un messaggio di speranza, possono essere molto più vicini di quanto non sembrino.