Coronavirus, il neurologo Sorrentino: “Fame di notizie minuto per minuto? È deleterio”

In piena emergenza sanitaria nazionale, l'esperto avverte: "Sì ai notiziari, ma tenere la mente occupata. L'isolamento può farci riscoprire parte di una comunità"

È dai tempi di “Radio Londra” che l’Italia non celebrava un “rito collettivo” come il punto delle 18, la Conferenza stampa della Protezione Civile, dove vengono snocciolate cifre amare, che tracciano una tragedia quotidiana. Mai come in questo momento, gli Italiani appaiono vulnerabili. Se a questa condizione si unisce una comunicazione monca, è difficile pensare ad esiti più o meno positivi. Nei giorni scorsi abbiamo avuto dimostrazione di come l’ondata del contagio ne abbia scatenato un’altra, quella della paura. Ma si può superare tutto questo, nonostante l’allerta rinnovata giorno dopo giorno, acuita dalle misure restrittive? Interris.it lo ha chiesto al neurologo Rosario Sorrentino.

Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli

Professore, perché in questi giorni difficili si parla spesso di “resilienza”?
“La resilienza rappresenta il piano B del nostro cervello per non soccombere e risalire la china e ripartire migliori di prima. La paura ha in sé due componenti: una emotiva e una razionale. Quella emotiva dà luogo al fuggi fuggi, a reazioni scomposte da ‘si salvi chi può’. La componente razionale, invece, dà luogo alla paura consapevole, cosciente, che conferisce all’essere un flusso di pensiero fatto di lucidità, consapevolezza, autodisciplina, responsabilità e soprattutto saggezza. Dovremmo iniziare seriamente a modificare il paradigma culturale della paura, perché oggi è il coronavirus, in passato è stato il terrorismo, il dissesto idrogeologico e tutte le altre catastrofi legate ad una irresponsabilità dell’attività umana. Ma nel futuro ci attenderanno altre emergenze. Quella paura globale che necessita di un approccio diverso per fare un utilizzo della paura per quello che è: una straordinaria risorsa.

Secondo lei, i nostri nonni erano più abituati a fare uso di quella “paura razionale” rispetto alle nuove generazioni?
“Sicuramente la guerra ed il Dopoguerra hanno cambiato le persone, rendendole più capaci nell’utilizzo di quel coraggio della paura. Eventi come la Grande Guerra hanno fornito strumenti cognitivi perché le persone potessero progressivamente adattarsi a mutate condizioni di vita e di sopravvivenza”.

Cos’è diverso nel nostro atteggiamento?
“Nell’era della strapotenza della tecnica, forse accettiamo di meno di apparire con noi stessi più fragili e vulnerabili. Abbiamo aumentato le nostre incertezze a scapito delle nostre certezze. È bastato un virus a inceppare il motore delle nostre certezze: questo non lo accettiamo, tanto quanto la vulnerabilità forse perché abbiamo pianificato le nostre risorse su codici che riteniamo fondamentali: il profitto, l’affermazione, la competizione. Facciamo uso del pronome ‘io’ che ha tarpato le ali al pronome ‘noi'”.

Alcuni pazienti guariti dal Covid-19 posano con lo staff medico del Sixth People’s Hospital of Shenyang – Foto © Xinhua

Il virus ha sovvertito questa gerarchia da noi imposta?
“Per un paradosso, il virus ci ha unito maggiormente. Mentre prima vivevamo una solitudine non fisica, ma mentale, ora mentalmente siamo più uniti, perché ci accomuna la lotta che sappiamo di dover condurre uniti più che mai”.

Vediamo la difficoltà per molti a uniformarsi alle norme imposte. Sono comportamenti figli della paura, secondo lei?
“In parte sì, ma io ritengo che improvvisamente viviamo tutti in una sorta di gigantesca bolla claustrofobica, dove sentiamo il disagio a veder limitata la nostra libertà. Allora, uscire e trasgredire vuol dire anche creare un alibi verso noi stessi perché il luogo che dovrebbe essere il più sicuro per noi, la casa, tutt’a un tratto restringe limitatamente l’autonomia di decidere la nostra libertà di muoversi. Io ritengo che, in questo momento, stiamo assistendo a una sorta di epidemia nell’epidemia, cioè la paura. Bisogna, dunque, avere anche attenzione a comunicare alle persone per quanto riguarda le loro azioni emotive, perché riguardo a queste modalità di comunicazione, noi possiamo aiutare le persone a sentirsi meno sole e superare quest’emergenza”.

Come andrebbe, dunque, affrontato questo periodo di isolamento?
“Innanzitutto, non guardare troppi notiziari, ma tenere il livello d’attenzione occupato. Cercare di darsi dei progetti a breve e medio termine, per esempio, e soprattutto ripetere il dialogo con le persone, condividere spazi e idee e il valore dell’amicizia e dello stare insieme. Paradossalmente, anche un’agorà virtuale, ma condivisa con le rispettive limitazioni legate a un cambiamento di prossemica, ci aiuterà perché la paura consapevole, paradossalmente, ci salverà”.

Una donna indossa la mascherina all’aeroporto Heathrow di Londra – Foto © Hannah McKay per Reuters