Coronavirus, allarme in Zimbabwe: “Centri di quarantena inadeguati”

Centri di contenimento travolti dall'ondata della pandemia e un contesto sociale che non consente l'autoisolamento né favorisce l'accesso alle cure. Il punto con Ariane Luff di Acf

Escalation di contagi laddove si cerca di predisporre le necessarie difese volte a contenerli. Questo il drammatico quadro che il coronavirus dipinge in Zimbabwe, dove l’andamento dei contagi si affianca al progressivo peggioramento delle emergenze sociali. In un contesto in cui l’isolamento domiciliare è pressoché impossibile e le cure mediche primarie vengono ostacolate da una crisi complessiva figlia di un trentennio di regime, Azione contro la Fame lancia l’allarme definitivo. I centri di quarantena, luogo di cura, si trasformano in veicolo di contagio: “La crisi economica – ha spiegato l’operatrice Ariane Luff – ha influito molto sul livello di preparazione dell’infrastruttura sanitaria”.

 

Il coronavirus si è inserito in un tessuto sociale fragile ma finora l’Africa sembrava aver assorbito l’impatto meglio di quanto ci si aspettasse. La crescita dei livelli di emergenza in Zimbabwe potrebbe trovare punti in comune anche con altre realtà africane?
“Non so se si può dire che l’Africa ha assorbito meglio il colpo. Penso che in Africa sicuramente ancora non abbiamo visto il picco. E in ogni caso sarà un picco meno visibile di quello europeo o americano a causa dei livelli di testing che rimangono abbastanza bassi in molti paesi del continente, compreso lo Zimbabwe. Sicuramente, in Zimbabwe le restrizioni che il governo ha imposto già da marzo (quindi non appena è stato confermato il primo caso) hanno rallentato il picco. I modelli che adesso si stanno sviluppando a livello nazionale indicano che il vero picco sarà intorno a ottobre o novembre e che, molto probabilmente, il virus non sarà sotto controllo prima del nuovo anno”.

Come si è evoluta la pandemia nel Paese?
“Nelle ultime settimane abbiamo visto un incremento importante di casi confermati, abbiamo superato i 4 mila. Forse non sembrano tanti rispetto ad altri Paesi, ma quando si tiene conto del fatto che sono stati effettuati soltanto 67.374 PCR ci dà un’idea di quanti possano essere veramente. Il numero di esami che si riesce a fare qui nello Zimbabwe rimane insufficiente per prendere misura della diffusione reale del virus nel paese. Penso sia il caso anche in altri paesi africani (attualmente, Il Ministero della Salute riesce a fare più o meno una miglia di esami PCR al giorno). E’ un po’ difficile trarre paragoni tra un paese africano e l’altro perché ci sono tantissimi elementi da contestualizzare. Però è vero che molti Stati hanno una popolazione molto più giovane di quella europea fatto che, da quello che sappiamo del virus, potrebbe risultare in un tasso di morte più basso”.

Altri punti in comune?
“Probabilmente l’alta densità della popolazione urbana che, abbinata a un alto tasso di povertà, può far sì che una volta partita la trasmissione locale (community transmission) è molto difficile di controllarla. La self-isolation di cui parliamo tutti è cosa impossibile per molte famiglie urbane in Zimbabwe, come anche in altri Paesi del mondo. Sarebbe importante notare anche che l’emergenza in Zimbabwe non è solo sanitaria. Ci sono una serie di fattori preesistenti che fanno sì che l’infrastruttura sanitaria e la popolazione stessa non potranno assorbire questo colpo senza assistenza umanitaria a larga scala. Il paese già faceva fronte a una crisi di sicurezza alimentare e socioeconomica importante. Il sistema sanitario disponeva già di scarse risorse e non funzionava in modo ottimale. Il governo ha preso coscienza di questo sin dall’inizio della crisi ed è per questo motivo che abbiamo visto qui l’imposizione di misure restrittive abbastanza severe. Questo è stato un tentativo da parte del governo di dare priorità alla prevenzione in primis, poiché si sapeva che una volta superato un certo volume di casi la situazione sarebbe potuta andare facilmente fuori controllo”.

Lo Zimbabwe è riemerso da un trentennio di governo Mugabe. Le scorie sociali di questi tre decenni hanno influito sulla tenuta dei servizi essenziali nel Paese, in primis la sanità?
“Assolutamente sì. La crisi economica ha influito molto sul livello di preparazione dell’infrastruttura sanitaria. In particolare, la decisione di ‘de-dollarizzare’ il paese ha portato ad altissimi livelli di inflazione che ha toccato tutti i settori compreso quello pubblico (quindi gli health workers). Le difficoltà che il governo continua ad avere con gli strumenti finanziari internazionali ha anche impedito l’accesso a fondi di sviluppo importanti che potrebbero aver fatto la differenza”.

Le problematiche maggiori derivano dalle mancanze di strumenti di cura o dall’impossibilità di garantire le norme base di igiene e distanziamento sociale?
“Sicuramente si potrebbe fare di più per quanto riguarda l’igiene e il distanziamento sociale. Però il vero problema è la mancanza di risorse sia fisiche che umane. L’infrastruttura sanitaria esiste, anche il personale qualificato fino a un certo punto. Ma queste strutture non sono attrezzate per rispondere a una crisi di questa portata. ACF ha lanciato questo mese un’iniziativa finanziata dall’UNICEF che prevede la valutazione e la riabilitazione dell’infrastruttura WASH nei centri d’isolamento designati dal Ministero come prioritari nelle varie provincie”.

Di cosa si tratta?
“Questo progetto comprende anche la distribuzione di PPE e la formazione IPC (lnfezione, prevenzione e controllo) del personale (Health care workers). Il progetto permetterà a 23 strutture sanitarie di raggiungere gli standard minimi per quanto riguarda WASH e IPC. Tuttavia, non ci sono strutture ospedaliere in grado di trattare casi critici, né personale formato per farlo, anche nel settore privato. Questo è stato evidenziato dai decessi di due cittadini eminenti i quali, nonostante avessero risorse finanziarie sufficienti a loro disposizione, non hanno potuto accedere a servizi sanitari adeguati una volta che hanno sviluppato sintomi gravi. Infatti, il primo a morire di Covid-19 in Zimbabwe era il noto giornalista Zororo Makamba. Morto il 23 marzo, si è recato all’Ospedale Wilkins – il centro d’isolamento principale di Harare – ma il personale non ha potuto localizzare un ventilatore. Più recentemente, il banchiere Norman Mataruka, è morto di Covid-19 il 27 luglio. Anche lui si è recato in ospedale (questa volta all’Harare Parirenyatwa poiché Wilkins è pieno da tempo) in cerca di assistenza medica urgente ed è stato rimandato a casa poiché l’ospedale non era attrezzata per trattarlo. Un altro fattore che sicuramente sta contribuendo alla trasmissione locale del virus è il fatto che le persone che risultano positive ma che non dimostrano sintomi gravi, vengono rimandati a casa. Sappiamo, come dicevo prima, che per molti di loro ‘self-isolation’ non è fattibile”.

Situazioni come quella vissuta dallo Zimbabwe potrebbero ripetersi (o star già accadendo) in altre zone del continente. C’è il rischio che un’eventuale crescita dell’emergenza vada a ripercuotersi sulle sacche di povertà già presenti, limitando aiuti e, di conseguenza, incrementando malnutrizione e altre emergenze sociali?
“Assolutamente sì. In realtà questo si sta già verificando. Il personale medico – dottori, infermieri – sta scioperando periodicamente già da qualche mese per protestare la mancanza di PPE, il mancato pagamento degli stipendi, e il ‘burnout’. Nelle ultime settimane, anche le organizzazioni umanitarie sono state colpite. Varie ONG (sia nazionali che internazionali) hanno segnalato casi di COVID tra i loro staff. Almeno un decesso è stato confermato tra le ONG. Questa situazione sta già avendo un impatto sulla nostra capacità di intervenire per rispondere alla crisi. La mancanza di opzioni di cura e l’alto tasso di frontline workers che sono stati infettati stanno mettendo in pericolo la risposta umanitaria. C’e’ sempre più paura tra i ‘first responders’ nell’esecuzione delle loro funzioni. Coloro che hanno casi particolarmente vulnerabili in casa hanno dovuto ritararsi dal servizio attivo già da tempo, diminuendo ancor di più le risorse disponibili alla risposta. Tutto ciò si sentirà al livello delle popolazioni più vulnerabili. Oltre all’impatto immediato della crisi sulla salute della popolazione, bisogna pensare agli effetti secondari quindi le ripercussioni della crisi sui modi di sostentamento delle persone. 80 percento della popolazione lavora nel settore informale, che è stato per la maggior parte fermo dal mese di marzo. Abbiamo visto anche un picco in Gender-based violence dall’inizio delle misure restrittive. WFP prevede che entro l’anno 8.6milioni di persone avranno bisogno di assistenza alimentare – quasi 60 percento della popolazione. Il problema che adesso si sta presentando è che la crisi sanitaria potrebbe ridurre la capacità del sistema umanitario di rispondere”.