Un viaggio nella Colombia del narcotraffico e dello sfruttamento

Il racconto del ricercatore e giornalista Simone Ferrari: “I Narcos si muovono con assoluta libertà. Regnano violenza e soprusi”.

Nel cuore della Colombia, un “non Stato”, le comunità indigene e gli onesti cittadini cercano di far fronte alla violenza perpetrata dai narcotrafficanti e dai guerriglieri. Il 15 luglio scorso Mario Paciolla, giovane operatore dell’Onu, è stato trovato esanime nella sua abitazione. Nessuno crede seriamente alla tesi del suicidio. In questo difficile spaccato si muove Simone Ferrari, ricercatore e giornalista di TPI. Dal 2016 in Colombia, Ferrari racconta a Interris.it la situazione “del primo Paese produttore di cocaina al mondo, dove regnano sfruttamento e soggiogamento della popolazione”.

Mario Paciolla, operatore dell’Onu è stato trovato esanime. La Colombia non è ancora un posto sicuro?
“No, non del tutto. Credo però che la geografia sociale della Colombia sia troppo frammentata per dare una risposta univoca”.

In che senso?
“Le grandi metropoli raccontano di una società che si è lasciata alle spalle le paure collettive di trent’anni fa. Nel 1991 Bogotá era considerata la città più insicura del mondo, Medellín la più violenta. Nel 2019, nella lista mondiale delle 40 città con il maggiore tasso di omicidi per abitanti sono apparse solo due città colombiane: Cali e Palmira. L’indice di morti violente a Medellín è sceso in 28 anni da 430 ogni 100.000 abitanti (1991) a 23 ogni 100.000 abitanti (2019). Sono numeri unici nella regione. La capitale mondiale della cocaina si è trasformata oggi in un modello per tutta l’America Latina, in termini di infrastrutture, sviluppo del turismo e sicurezza. Sono ancora tante le periferie problematiche, in particolare nelle città costiere. Ma in termini generali le metropoli colombiane ad oggi non sono più epicentri della violenza continentale. Questa percezione di sicurezza ritrovata nelle grandi città è però controbilanciata da un aumento dell’instabilità sociale in tante zone periferiche del Paese, tra cui il Caquetá, il dipartimento in cui operava Mario Paciolla con la Missione di Verifica ONU”.

Da cosa dipende questa instabilità?
“In queste regioni operano attori armati vincolati al narcotraffico e ad altri macrointeressi economici. Questi gruppi hanno imposto una violenza strutturale, spesso con la connivenza dell’esercito, per cui ogni voce dissidente viene silenziata con la morte. Paradossalmente, gli accordi di pace tra FARC e Governo hanno peggiorato la situazione. Il conflitto si è riconfigurato in maniera macabra, opaca. È sempre più difficile identificare questi gruppi, e la guerra ha sempre meno regole.  Dalla ratifica degli accordi nel novembre del 2016 sono stati uccisi circa 500 attivisti per i diritti umani. E non è solo un problema di abbandono statale. In certe regioni gli apparati istituzionali sono presenti, ma permeati di corruzione, o in alcuni casi responsabili diretti di massacri. Nel novembre del 2019 si è scoperto un episodio spaventoso, che è costato le dimissioni al Ministro della Difesa Guillermo Botero. Un bombardamento dell’esercito in cui hanno perso la vita 8 minorenni. A Puerto Rico, nel Caquetá. Proprio la regione in cui lavorava Paciolla…”

Qual è la situazione in riferimento agli indigeni?
“Storicamente, la Colombia è stato uno dei paesi americani meno attenti ai diritti delle comunità indigene. Fino al 1996 era ancora vigente in tutti i suoi articoli la legge 89 del 1890, che definiva gli indigeni, letteralmente, come “selvaggi da ridurre alla vita civilizzata”, da trattare alla stregua di “minori di età”. La Costituzione del 1991 ha cambiato qualcosa, con il riconoscimento del carattere plurietnico dello Stato. Ma i passi in avanti in termini di diritti e autonomia si devono soprattutto alle organizzazioni indigene come il CRIC, nato nel 1971. É una delle associazioni più strutturate del continente, ha ottenuto risultati impressionanti: l’imposizione di un’educazione bilingue nelle regioni a maggioranza indigena, il recupero di migliaia di ettari di terre ancestrali, la riviviscenza delle culture tradizionali”.

Cosa rappresentano queste comunità per la Colombia?
“Quando si parla di comunità autoctone bisogna considerare che in Colombia vivono attualmente 102 etnie indigene che parlano 69 lingue. Quasi due milioni di persone. Spesso si tende a incatenare queste popolazioni nelle prigioni del passato. Certo, sono state decimate dall’invasione spagnola, e in alcuni casi costrette a fuggire nelle zone più inospitali delle Ande e dei deserti colombiani. Ma sono culture vive. E ogni comunità ha le sue problematiche. In Amazzonia le popolazioni uitoto/murui e tikuna devono fare i conti con la deforestazione massiva. Le comunità nasa della Cordigliera centrale pagano con continui assassinati la resistenza pacifica contro la presenza di gruppi armati nei loro territori. Gli wayuu che abitano le zone desertiche della regione caraibica sono afflitti da gravissime problematiche di denutrizione infantile. Gli Emberá del Chocó vivono nel mezzo del fuoco incrociato tra guerriglieri ed esercito. E così via”.

Come si muovono i narco trafficanti?
“Con assoluta libertà. La Colombia continua ad essere il maggior produttore di cocaina del mondo. Si stimano 200.000 ettari di campi di coca sparsi per il Paese. E non sono da sottovalutare le coltivazioni di papavero da oppio e di marihuana, in continua espansione. Le dinamiche di sfruttamento e soggiogazione delle popolazioni locali sono le stesse per ogni tipo di coltivazione”.

Quali?
“I narcos offrono il lavoro di ‘raspachín’ (raccoglitore di foglie di coca) o lo impongono, a seconda del grado di resistenza che incontrano nelle diverse comunità contadine, afrocolombiane, indigene. I narcos applicano metodi di controllo differenziati. Poi c’è il discorso dell’esportazione, in cui inevitabilmente entra in gioco una complessa rete di connivenze e corruzioni. Via terra, via aerea, e soprattutto via mare. Le tonnellate di cocaina che fuoriescono quotidianamente dal porto di Buenaventura, sul litorale pacifico, sono non quantificabili. Eppure, quando sono stato da quelle parti, un membro dell’autorità portuale si ostinava a convincermi che ‘aquí ya no hay droga’… Vige un meccanismo di omertà assoluta. Infine, c’è un ultimo elemento da considerare: la relazione tra i narcotrafficanti e gli altri gruppi armati. Fino a pochi anni fa, le strutture criminali che maneggiavano la produzione di coca nel Paese erano più piccole di quanto si potesse immaginare. Organizzazioni locali che si occupavano di vendere la cocaina alle grandi mafie nazionali e non. A quei tempi, parlo soprattutto degli anni Novanta, le FARC contavano su decine di migliaia di uomini, e si muovevano pressoché nelle stesse regioni dei produttori di coca. I narcotrafficanti erano obbligati a sottostare alle regole dei guerriglieri, pagando loro una tassa per ogni ettaro di coca coltivato. Ora le dinamiche sono più complesse. I guerriglieri hanno perso potere e in alcune regioni sono le grandi mafie a gestire direttamente la produzione e il movimento della cocaina. La presenza del Cartello di Sinaloa nel sud del Paese è certificata da tempo”.

Quali sono i gruppi di paramilitari? Perché sono così problematici per la Colombia?
“Il paramilitarismo in Colombia è un fenomeno molto più radicato della Guerriglia. Ai tempi della guerra civile tra liberali e conservatori, negli anni Quaranta del secolo scorso, si conformarono squadroni della morte chiamati ‘Pájaros’ e ‘Chulavitas’. Si occupavano di seminare il terrore nei municipi a maggioranza liberale. Nei decenni successivi si sono susseguite diverse organizzazioni di questo tipo. Le più potenti furono certamente le AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), comandata dai fratelli Castaño Gil e da Salvatore Mancuso, narcotrafficante di origini italiane. Contavano su circa 30 mila uomini e tra il 1997 e il 2006 perpetrarono alcuni dei peggiori crimini della storia del Paese. Agivano nelle zone rurali, con l’avallo delle istituzioni e finanziati dal commercio di coca. Quando prendevano il potere in villaggi dove era passata la guerriglia, cominciavano le persecuzioni e i massacri contro la popolazione, considerata ‘alleata’ dei gruppi comunisti. Erano il braccio sporco dell’esercito nella guerra contro le FARC”.

E le AUC?
“Le AUC hanno consegnato le armi nel 2006, durante il Governo di Álvaro Uribe. Lo stesso Uribe che pochi giorni fa è stato condannato dal Tribunale Supremo di Giustizia per i suoi legami con i paramilitari. Insomma, una questione ombrosa. Ad oggi non ci sono strutture potenti come le AUC, ma nel Nord del Paese sono ancora tanti i municipi che devono convivere con attori armati di questo tipo. Tanti gruppi paramilitari sono diventati a tutti gli effetti organizzazioni criminali dedite al narcotraffico. Il Clan del Golfo ne è un chiaro esempio”.

Cosa significa fare il giornalista in un Paese così difficile?
“Parlo in generale, in quanto la mia attività nel settore è saltuaria. Ma ho lavorato tanto sul campo in territori problematici, come ricercatore, e ho conosciuto direttamente il valore di alcuni giornalisti locali. In Colombia non si sta verificando la guerra totale al giornalismo d’inchiesta che è in atto in Messico da alcuni anni. Ma sono comunque tanti i giornalisti costretti ad emigrare o ad assumere una scorta in seguito ai loro reportage. Penso a Claudia Julieta Duque, che attualmente si sta occupando del caso di Mario Paciolla. L’eredità di Guillermo Cano, il direttore del quotidiano El Espectador assassinato dal Cartello di Medellín nel 1986, è ancora viva in tante coraggiose penne del Paese. Guillermo Cano denunciava i crimini di mafia in un periodo in cui la guerra dei narcos agiva soprattutto nelle città. La stessa fermezza di Giuseppe Fava. Mi approprio delle sue parole per raccontare ciò che significa avere il coraggio di dare spazio a certe voci in questi luoghi: ‘A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?’”.

Vedremo mai, in un futuro, una Colombia diversa?
“Una Colombia diversa esiste già. E’ la Colombia delle resistenze e delle autonomie dei popoli che la abitano. In alcuni territori, le comunità indigene Nasa sono riuscite a liberarsi della presenza di ogni tipo di attori armati, esercito compreso. Propongono un modello politico straordinario, basato su una forma di governo tradizionale di decisione collettiva. Sono un esempio ispiratore per tante popolazioni del continente. Ma questi cammini autonomi verso la pace e la dignità non si costruiscono solo nelle poco accessibili comunità indigene andine. Nelle periferie urbane di Medellín e Bogotá alcune delle zone più violente delle città sono state riconvertite in spazi di attrazione turistica, attraverso l’arte urbana e le memorie collettive. Sono esempi vincenti di rinascita, che possono ispirare altre realtà americane. Alcune comunità contadine del Caquetá e del Meta hanno trasformato le coltivazioni di coca in piantagioni di caffè, hanno scelto il cammino dell’autonomia assoluta, data l’assenza dello Stato. É una Colombia di cui si sa poco, poiché sono processi locali, non supportati dalle istituzioni. E l’attenzione mediatica si dirige agli epicentri del conflitto più che alle resistenze. Ma come scriveva García Márquez, credo che per parlare veramente di violenza sia necessario concentrarsi sui vivi, più che sui morti. E le culture vive colombiane non sono solo soggiogamento e omertà, ma anche autonomia e alternativa”.