Cohousing per care leavers

L’intervista di Interris al presidente dell’associazione Agevolando Federico Zullo sui progetti abitativi per i giovani che escono dall’affido o dai servizi residenziali

L’abitare sociale come porta d’ingresso nel mondo degli adulti per chi ha vissuto “fuori famiglia”, cioè in una casa famiglia, in una comunità per minorenni o in affido. Ogni anno infatti circa tremila giovani neomaggiorenni, i care leavers, devono diventare “grandi” da soli perché le loro famiglie d’origine non sono in grado in riaccoglierli o loro non vogliono tornarci. Una condizione dura e complessa, per pregiudizi di vario tipo, per le difficoltà nell’inserimento lavorativo e nel trovare un alloggio in locazione, date le scarse o nulle garanzie che un giovane appena uscito da una struttura di accoglienza può offrire al proprietario di un appartamento. Così, chi ha vissuto su di sé l’esperienza di care leaver, ha deciso di metterla a disposizione degli altri, di fornire loro ascolto, supporto, compagnia e gli strumenti per compiere il passo definitivo verso l’autonomia. Si tratta di Agevolando, organizzazione di volontariato nata nel 2010 a Bologna e presieduta da Federico Zullo, pedagogista e volontario dell’associazione. “Negli anni Novanta ho vissuto in una comunità”, racconta a Interris.it nell’intervista che segue, “poi tempo dopo ho deciso di coinvolgere altre persone per dare una mano ai care leavers e abbiamo pensato che uno dei principali problemi per chi ‘esce’ è quello della casa”. L’associazione si rivolge ai giovani e alle giovani di nazionalità italiana o straniera tra i 18 e il 26 anni che escono dalle case famiglia. Nel 2012 a Bologna è partito il progetto “Casa Dolce Casa”, grazie a un alloggio in comodato d’uso gratuito dal Comune di Bologna, e adesso sono 50 i care leavers coinvolti nei vari progetti abitativi dell’associazione.

“Fuori famiglia”

Quanti sono i minori “fuori famiglia” nel nostro Paese? Alcuni mesi fa, nel corso di un’audizione, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando ha anticipato i dati dell’ultimo report elaborato a luglio 2021 dall’Istituto degli Innocenti di Firenze sui bambini e i ragazzi in affidamento familiare e nei servizi residenziali. L’istituto è un ente pubblico che tra i suoi scopi istituzionali include la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ed espleta la raccolta e l’elaborazione statistica dei dati, basati sulle rilevazioni delle Regioni e Province autonome. L’ultimo rapporto fa riferimento a dati fino al 31 dicembre 2019 e certifica la presenza di 27.608 – al netto dei minori stranieri non accompagnati – minori collocati fuori famiglia. Si tratta di 13.555 bambini e ragazzi di minore età in affidamento familiare a singoli e parenti, l’1,4 per mille della popolazione minorile residente in Italia, e 14.053 bambini accolti in servizi residenziali per minorenni.

L’intervista

Com’è nata l’associazione “Agevolando”?

“Siamo nati per dare voce ai care leavers poiché avevamo vissuto noi stessi quest’esperienza, io per esempio sono stato in una comunità negli anni Novanta. Ho coinvolto diverse persone per dare vita a questa idea: fare qualcosa per chi ‘esce’. Ci siamo resi conto che uno dei problemi principali è quello della casa e abbiamo cominciato a Ferrara, con un appartamento ad affitto calmierato grazie all’ente pubblico Azienda Casa Emilia Romagna (Acer), dove dei ragazzi usciti da una comunità per minori potevano stare per uno o due anni, così da avere tempo utile per potersi organizzare e avere autonomia, continuità lavorativa e sviluppare competenze nell’autogestione, coprendo da soli le spese di gestione dell’appartamento. Nel 2011 il primo ragazzo che è entrato, Billy, l’ha chiamata “Casa dolce casa” e da lì è nato il nome del progetto”.

Dove opera Agevolando?

“Per quanto riguarda i progetti abitativi opera a Bologna, Ravenna, Ferrara, Rimini, Verona e Trento. Altrove facciamo attività non di tipo abitativo operando sui territori per attivare “dal basso”, mentre nel Centro e nel Sud Italia abbiamo progetti di inserimento lavorativo e di advocacy”.

Perché quello dell’alloggio è uno dei problemi principali?

“La difficoltà a reperire case in affitto per i care leavers ha dietro diversi motivi. Ci sono ancora dei livelli pregiudizi culturali sia verso i ragazzi che verso gli stranieri. Inoltre diversi proprietari di appartamenti hanno necessità di una qualche garanzia, per cui preferiscono una famiglia con una busta paga rispetto a un giovane con un contratto a tempo determinato. Non ultimo, la mancanza di possibili stanze o case da affittare nel nord Italia. In città come Bologna e Verona tutti gli affitti sono già occupati, si trovano solo in vendita”.

Come funziona il cohousing per care leavers?

“Si tratta di situazioni in cui un gruppo, che va dai due ai quattro ragazzi convive. Fuori Ravenna in una villetta campagna ne ospitiamo addirittura sei. Cerchiamo di accompagnare quei giovani che, non trovando altre soluzioni, mentre cercano una stabilità lavorativa imparano come si gestisce un’abitazione nel quotidiano. Il progetto, per ogni ragazzo, dura da uno a due anni, poi se hanno un impiego a tempo indeterminato riescono anche ad andare a vivere con qualche amico in autonomia. Qualcuno è un po’ preoccupato, qualcun altro ha più entusiasmo, ma tutti hanno le basi per trovare un equilibrio personale. Su Bologna lavoriamo a un progetto per il “dopo-Casa Dolce Casa”, con tre appartamenti da due persone ciascuno, da dare ai ragazzi in comodato d’uso gratuito per ulteriori due anni se non trovano una sistemazione o un contratto di lavoro”.

Come seguite i ragazzi in questo periodo di tempo?

“Laddove ne abbiamo un numero maggiore riusciamo a imbastire della progettualità sostenute da fondazioni che ci permettono di avere a disposizione per alcune ore degli educatori che monitorano il percorso dei ragazzi in appartamento. Altrimenti il monitoraggio dipende dai ragazzi stessi e dalle situazioni: all’inizio può essere necessario andare a trovarli un paio di volte alla settimana, una volta che sono più esperti anche una sola volta al mese. Bisogna essere sicuri che i ragazzi abbiano delle relazioni sociali e dei punti di riferimento personali, come un amico o un conoscente, e se sono sistemati da questo punto di vista monitoraggio può essere anche più leggero”.

Quali sono i loro principali bisogni?

“Il più importante è che non si sentano soli, la solitudine richiama vissuti di abbandono e sofferenza. Devono costruire relazioni prima di ‘uscire’, con i volontari, gli educatori, i genitori affidatari. Anche del tipo vedersi per il pranzo della domenica. In parallelo a questo, sono fondamentali la relazione tra pari, le dinamiche di mutuo aiuto tra i ragazzi e di sostegno vicendevole. Diamo loro vicinanza emotiva, percorsi formativi d’inserimento lavorativo e laddove ci sono possibilità, le competenze e la passione, anche sostegno per un percorso universitario”.