Cosa sta accadendo nella Bielorussia che sciopera e protesta

Un Paese in difficoltà e una piazza che vuole il passo indietro del proprio presidente. Un quadro dove la crisi economica incide più della geopolitica

Numeri approssimativi ma perlomeno nell’ordine dei 150 mila. A Minsk, capitale della Bielorussia, converge la stragrande maggioranza del Paese che alla pluridecennale guida Lukashenko non ci crede più da un pezzo. Un risentimento che parte da lontano, esploso a seguito delle controverse elezioni di una settimana fa, nelle quali il presidente uscente (tale a ogni tornata elettorale da più di vent’anni) aveva incassato l’80% delle preferenze, spazzando via i rivali dell’opposizione confinati, nel migliore di casi (quello di Svetlana Thikanovskaya), a un misero 9%. Numeri abissali che, a spoglio in corso, hanno portato i leader anti-governativi a gridare al broglio, innescando la scintilla di una piazza che mira a mettere un punto definitivo ai ventisei anni a guida Lukashenko.

Bielorussia, operai in protesta

E’ un risentimento esploso negli ultimi giorni ma che ha radici lontane quello che il popolo bielorusso ha riversato nelle strade di Minsk. Prima le proteste, furiose, che hanno portato all’arresto di migliaia di manifestanti e all’emersione delle gravi violazioni dei diritti umani avvenute nei centri di detenzione del Paese. Poi la Marcia per la libertà, che travolge idealmente il manipolo di sostenitori pro-regime e va a prendersi, pezzo dopo pezzo, la rivalsa sulle repressioni dei giorni scorsi. Stavolta i bielorussi fanno sul serio: il Paese intero si è fermato, anche gli operai dello stabilimento Mtz, fra i maggiori della Bielorussia, hanno deciso di incrociare le braccia, rispedendo al mittente le parole del presidente, che vi si era recato in visita. “Non si può falsificare l’80% dei voti… Se mi dimettessi oggi, cosa accadrebbe domani ai vostri salari?”. Parole che non hanno convinto gli operai, né tantomeno chi pretende da Lukashenko il passo indietro definitivo.

Il ruolo di Mosca

I manifestanti, sventolando il vecchio vessillo bianco e rosso, bandiera dell’Indipendenza, hanno respinto anche l’unica concessione che il presidente si è detto disposto a fare. Niente referendum costituzionale, con elezioni demandate al dopo-consultazione. Anche perché, di fatto, la strategia presidenziale eludeva la principale richiesta della popolazione bielorussa, ovvero il farsi da parte senza condizioni. Del resto, lo stesso Lukashenko ha incassato il sostegno di Vladimir Putin, a vittoria (elettorale) acquisita e anche durante l’ondata di dissenso popolare che ha scosso la poltrona di Minsk. Addirittura, il presidente russo si è detto disponibile a intervenire militarmente, qualora la minaccia per l’incolumità del corrispettivo bielorusso dovesse farsi più pressante. Un’eventualità che, in realtà, qualche campanello d’allarme lo ha fatto suonare: nei giorni scorsi, Lukashenko si era detto certo di un avanzamento delle forze Nato ai confini bielorussi, mentre alcuni media locali segnalano come gli stessi distaccamenti russi abbiano accorciato la distanza dei loro avamposti dalla linea di demarcazione con il territorio di Minsk.

Appello al dialogo

Anche per questo, gli appelli alla mediazione si susseguono senza sosta. Con lo spettro di una nuova Crimea (anche se i contesti sono radicalmente diversi), e con tutti i correlati geopolitici, sociali e civili che comporterebbe una nuova stagione di tensione nell’Est Europa, l’auspicio è che, come auspicato da Papa Francesco, si intraprenda la via del dialogo. Un invito esplicito, anche se giunge in una fase in cui la nutrita sacca anti-governativa di ragioni non vuole sentirne: l’unica condizione sul piatto è indire nuove elezioni. E, stavolta, con la garanzia che il risultato finale non sia un mezzo plebiscito in favore dell’uomo di Belaja Rus’, attraverso l’ausilio di osservatori internazionali. I bielorussi sembrano pronti a scommettere su chi, come Tikhanovskaya, si è detto pronto a raccogliere le insegne della fiducia popolare. Al fine, naturalmente, di chiudere il sipario su quella che, da molti, è definita l’ultima dittatura d’Europa, la più “russa” fra le ex repubbliche sovietiche, specie dalla stretta di mano che, nel 1996, costituì l’Unione statale fra Mosca e Minsk.

Questioni economiche

La discesa in piazza degli operai, che bloccano i motori delle fabbriche (all’acciaieria Bmz, ad esempio) o inveiscono contro il presidente in visita, certifica probabilmente un punto di non ritorno per il Paese. La scelta di Lukashenko, al momento, si restringe di molto: continuare la politica repressiva (contando sull’appoggio, da lui stesso ribadito come certo, della Russia) o acconsentire a farsi da parte e a lasciare la parola alle urne. Uno scenario che, vista anche la condizione economica del Paese, aprirebbe probabilmente nuove vie per tornare a galla. La pandemia ha colpito duramente l’indotto bielorusso, che ha visto ridurre i sussidi economici di Mosca (da cui riceve un grosso supporto, soprattutto sul piano energetico) e scendere in picchiata il Prodotto interno lordo. Quasi a sfiorare i livelli di recessione. Probabilmente la vera goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo, palesando come i connotati geopolitici subentrino di riflesso, e che la vera questione è la sopravvivenza della Bielorussia.