L’Africa raccontata da una giovane ostetrica

Camilla Scalchi si laurea in ostetricia e vola in Sierra Leone per lavorare in un ospedale. Il suo racconto tra dolore e gioia

6,915 chilometri separano Roma dalla capitale della Sierra Leone, nella zona occidentale dell’Africa. Camilla Scalchi li ha attraversati per dirigersi a Bo, la seconda città del Paese, dove la aspettava un’esperienza difficile ma umanamente ineguagliabile: lavorare all’interno di un ospedale. L’Africa povera dove le condizioni atmosferiche e i secoli di colonizzazione hanno impedito lo svilupparsi di una economia florida. Per questo, la popolazione è attanagliata da una profonda indigenza che comporta situazioni sanitarie pessime. Nel nero del cosiddetto “Terzo Mondo”, però, nasce “una gioia e una allegria divine, le persone ballano e le donne in travaglio cantano” come racconta a Interris.it Camilla Scalchi, giovane laureata in ostetricia.

Prende la valigia e vola in Africa, perché?
“Sono partita l’anno scorso tra luglio ed agosto per arrivare in Sierra Leone, nella seconda città del Paese dopo la capitale Freetown, Bo, insieme all’Ong Medici con l’Africa Cuamm. Quest’ultima aveva ideato un concorso per giovani laureati in ostetricia al quale io ho partecipato. Sono rientrata nei 10 studenti vincitori. Così, sono andata in Sierra Leone per lavorare all’interno di un ospedale dove svolgevo turni anche di otto o dieci ore al giorno”.

Cosa significa per una giovane ragazza essere catapultata in quella difficile realtà?
“Nonostante si parli molto dell’Africa, quando la si vive è un’esperienza completamente diversa. Sono scesa dell’aereo e sono stata travolta da un caldo inimmaginabile, reso ancora più efferato dalla molta umidità. Stavamo proprio nel periodo delle piogge. Tutto intorno, una terra rossa da dove si ergevano solamente delle baracche, mentre le persone si muovevano per la strada, alcuni dormivano anche ai margini delle abitazioni. In quel periodo, le piogge sono costanti e non si interrompono mai: durano anche settimane. Noi eravamo dispiaciuti di queste condizioni meteo, invece la popolazione locale ne era rinvigorita ed appariva festosa. In molti ponevano fuori la porta grandi badili per raccogliere l’acqua piovana, la quale finiva per diventare strumento utile per cucinare o lavarsi”.

In ospedale che situazione ha trovato?
“All’interno della struttura tutti facevano il massimo con quel poco che si aveva a disposizione. Io ho lavorato principalmente nella sala parto dove le condizioni erano, purtroppo, pessime. Le tende per la malaria sopra i letti che poi letti non erano: dei ferri con sopra un materasso. I bambini non avevano un reparto per loro. Accanto al letto mettevano un secchio che veniva utilizzato per fare i bisogni o per gettare la placenta. 5 o 6 donne in una stanza, partorivano tutte insieme. La sterilità era completamente assente: venivano utilizzati gli stessi guanti, le stesse siringhe, le stesse flebo. Addirittura al posto dei cateteri, ci si arrabattava con dei pezzi di plastica. Le condizioni erano pessime ma si cercava di trarne il massimo possibile. Il disinfettante era centellinato per non sprecarlo. Anche quello era contato. Ogni donna che veniva a partorire doveva portare con sé un pacco di guanti altrimenti non veniva fatta entrare”.

C’era una sala operatoria?
“Sì, la sala operatoria veniva gestita anche con maggiore accortezza a livello di sterilizzazione. Ma, in ogni, caso le condizioni del personale erano disperate. Un solo ginecologo e uno strumentista”.

Cosa ha significato per lei questa esperienza?
“Questa esperienza mi ha consegnato un nuovo significato di vita. Lì, in estrema povertà, bambini, donne e uomini si muovevano con il sorriso. Ho parlato con donne giovanissime, di neanche venti anni, che mi hanno raccontato le difficoltà nella gestione dei figli. Difficoltà soprattutto economiche. Ma mentre parlavano, il loro viso era solcato da un lungo sorriso. Alcune venivano nel nostro ospedale da molto lontano: a piedi o in bici. Anche per partorire. Venivano da zone dell’entroterra dove non si parla inglese ma solo una lingua dialettale. La comprensione però si svolgeva con gli sguardi, sguardi pieni di riconoscenza ed affetto per la cura che utilizzavamo nel curarli, nel coadiuvarli al parto. Una gioia che traspariva soprattutto tramite i balli e le canzoni. Alcune donne in fase di travaglio o addirittura di parto iniziavano a cantare, intorno le persone ballavano. Io sono andata per aiutare, ma loro mi hanno donato un altro modo di vedere la vita: hakuna matata, dicono. Il famoso ‘Mal d’Africa’ esiste. Quando torni fai un necessario raffronto tra le differenti condizioni di quotidianità. La povertà non impedisce loro di godere della vita, dei doni della natura, dello stare in comunità con una gioia coinvolgente. Il tutto amalgamato da una forte religiosità, dal dialogo con Dio. Ho visto morire bambini, le donne si disperavano ma in un secondo momento subentrava una forte accettazione che passava dal conforto in Dio”.

 

Qual è un’immagine che le è rimasta impressa?
“Quando camminavo per la città, la gente si fermava a salutarmi e a parlare. I bambini appena mi vedevano mi accerchiavano. Mi toccavano i capelli e i vestiti, iniziavano a ballare e a cantare. Un’allegria divina”.