Acqua, l’oro blu: il 20% della popolazione mondiale ne usa l’80%

L’intervista di Interris.it al fondatore di “Ho avuto sete” Andrea Ballestrazzi in occasione della Giornata mondiale e dell’acqua e del decennale dell’organizzazione

Acqua

L’acqua è, negli ultimi anni, sempre più al centro delle nostre cronache: quando parliamo di eventi climatici tragici, come le alluvioni che spazzano via le case e spezzano le vite, e i periodi di siccità sempre più lunghi. L’acqua è salute, è igiene, è salubrità, è economia – basti pensare all’agricoltura e all’allevamento, ma anche all’industria. E scarsità d’acqua significa anche instabilità politica, conflitti e migrazioni. Ogni 22 marzo, dal 1993, si celebra la Giornata mondiale dell’acqua, istituita nel dicembre 1992 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite sulla base dell’agenda 21, un piano di azione non vincolante per lo sviluppo sostenibile, prodotta nel cosiddetto “Summit della Terra”, la prima conferenza dei capi di Stato sull’ambiente tenutasi a Rio de Janeiro, in Brasile, nel giugno 1992.

Alcuni numeri

Lo stato di salute dell’acqua nel mondo, o almeno in alcune parti di esso, non è affatto roseo. E non da oggi. Secondo il World Water Development Report delle Nazioni unite del 2020, il 74% dei tutti i disastri naturali avvenuti tra il 2001 e il 2018 è legato all’acqua, e il totale delle vittime di inondazioni e siccità, che hanno colpito tre miliardi di persone e causato danni economici per circa 700 miliardi di dollari, negli ultimi 20 anni ha superato le 166mila unità. In poco più di un secolo, dal 1900 in avanti, più di 11 milioni di persone sono morte a causa della siccità e oltre due miliardi ne sono state colpite. Mentre entro il 2050 si prevede, secondo dati Unesco del 2012, che aumenteranno fino a due miliardi le persone vulnerabili ai disastri nelle terre soggette a inondazioni, cambiamento climatico, deforestazione, perdita di zone umide e aumento del livello del mare.

Entro il 2030, secondo il Global Water Institute del 2013, 700 milioni di persone in tutto il mondo potrebbero essere sfollate a causa di un’intensa scarsità d’acqua, mentre per i 68,5 milioni di persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case, l’accesso ai servizi di acqua sicura è altamente problematico, riportava nel 2017 l’Alto commissariato Onu per i rifugiati.

Oltre due  miliardi di persone vivono in paesi con stress idrico – quando un territorio preleva il 25% o più delle sue risorse rinnovabili di acqua dolce –, di cui 733 milioni vivono in paesi ad alto e critico stress idrico, secondo United Nations-Water 2021. Mentre 1,4 miliardi di persone – tra cui 450 milioni di bambini – al 2021, vivono in aree ad alta o altissima vulnerabilità idrica, secondo Unicef, circa quattro miliardi di persone sperimentano una grave carenza d’acqua durante almeno un mese all’anno, secondo un lavoro degli studiosi Mesfin Mekonnen e Arjen Hoekstra del 2016.

Sul fronte della salute e della qualità dell’“oro blu”, a livello globale, il 44% delle acque reflue domestiche non viene trattato in modo sicuro, secondo l’UN-Water 2021, senza dimenticare che i dati sulla qualità dell’acqua in diversi Paesi non sono sempre raccolti. Diverse malattie legate all’acqua, tra cui il colera e la schistosomiasi, riporta il World Water Development Report delle Nazioni unite del 2017, rimangono diffuse in molti paesi in via di sviluppo, dove solo una frazione molto piccola (in alcuni casi meno del 5%) delle acque reflue domestiche e urbane viene trattata prima del loro rilascio nell’ambiente. Oggi, secondo un monitoraggio congiunto tra l’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Unicef sui progressi in materia di acqua potabile per uso domestico, strutture igienico-sanitarie e igiene tra il 2000 e il 2020, circa una persona su quattro nel mondo manca di acqua potabile, poco meno della metà della popolazione mondiale manca di servizi igienici sicuri e una persona su tre non ha i servizi per lavarsi meni a casa.

L’intervista

In questo 22 marzo non si celebra solo il trentennale dell’istituzione di questa giornata mondiale da parte della comunità internazionale, ma anche i dieci anni di vita e di attività di un’organizzazione di volontariato italiana che si occupa di “dare da bere agli assetati” tra gli ultimi del mondo e cerca inoltre di soddisfare quella “sete di senso” che ogni uomo prova. L’associazione si chiama “Ho avuto sete”, è nata il 22 marzo 2012 a Modena e opera soprattutto nei Paesi del Sahel, realizzando principalmente impianti idrici – insieme a progetti per l’istruzione e per la salute. Uno di questi pozzi, nella diocesi di Tenkodogo in Burkina Faso, è stato “donato” a papa Francesco, in occasione dell’udienza privata che si è tenuta la mattina del 21 marzo nella Sala Clementina in Vaticano, dove sono stati accolte una sessantina di persone tra cui la presidente Michela Marchetto, il giornalista e autore televisivo Piero Badaloni, il vicario generale della diocesi di Carpi Ermenegildo Matricardi e uno dei fondatori dei ex presidenti dei “Ho avuto sete” Andrea Ballestrazzi. “Siamo felici che il Santo Padre ci abbia accolto e ascoltato – ha detto la presidente Marchetto –. Per noi è una gioia grandissima e lo è anche aver potuto donargli un pozzo, uno dei tanti progetti che realizziamo nei villaggi africani. In questo modo abbiamo portato un po’ di Africa a Francesco e lui ci accompagna nei nostri progetti in questo continente”. “Già l’invito ad incontralo in Vaticano è stata una sorpresa – ha commentato al termine della visita Ballestrazzi –. Poi questo calore e il riconoscimento alla fertilità del volontariato italiano ci ha sorpresi e riempito di gioia. È stata una giornata molto bella, storica, un’occasione anche per unire le due città di Modena e Carpi con i suoi sindaci e i tanti amici che durante l’anno collaborano con l’associazione. È stato un dono necessario in questi tempi: le associazioni di volontariato servono e sono importanti perché ci ricordano i rischi del disumano”. Interris.it ha avuto l’opportunità di parlare proprio con il dottor Ballestrazzi.

Oggi il nostro consumo di acqua è “sano”?

“Il 20% della popolazione mondiale utilizza da sola l’80% delle risorse idriche del nostro Pianeta, in Occidente si consuma l’acqua in modo acritico. Per via di questo squilibrio si creano tensioni e conflitti intorno a questa risorsa. In Paesi come il Mali, il Burkina Faso, il Niger e il Sudan, più fragili sotto il profilo politico, il problema è la mancanza di modalità di estrazione e di distribuzione dell’acqua. Nei villaggi africani si vedono persone che ogni giorno s’incamminano verso una fonte. La vera sfida oggi è modificare gli attuali modelli di distribuzione e impiego di questa risorsa: ne vanno concordati di sostenibili in un quadro odierno ormai insostenibile”.

Quali politiche si dovrebbero attuare in soccorso delle aree del mondo dove questa risorsa è ancora più preziosa?

“Oggi si ricorre a una politica che assegna particolari incentivi a quei modelli che mutano, come i sistemi di coltivazione che si trasformano in un senso sostenibile rispetto al mito della crescita – che come ogni mito è da vedere in chiave critica. La crescita infinita in un pianeta finito è insostenibile, occorre perciò ripensare al nostro rapporto con la natura, non più un oggetto a nostra disposizione ma soggetto. Urge prima un’azione culturale, poi multilaterale e soprattutto cooperativa per costruire percorsi comuni, poiché adesso le cosiddette ‘nuove economie’ non vogliono rinunciare a quelle opportunità di sviluppo che hanno avuto i loro predecessori”.

L’organizzazione di cui lei è uno dei fondatori, “Ho avuto sete”, ha partecipato al docufilm “La Grande Sete”, cosa ci può dire a riguardo?

“Per sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi abbiamo collaborato, con Piero Badaloni a realizzare questo prodotto per la prima volta in onda lunedì 21 su Rai 3 alle ore 23.15. Si tratta di un approfondimento e di un’indagine su cosa stanno facendo gli Stati per raggiungere l’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite, che intende “garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie”. L’opera approfondisce e riflette sui sistemi di gestione dell’acqua, sui problemi di approvvigionamento che generano lotte e discriminazioni, e propone visioni per un futuro in cui il bene prezioso dell’acqua sia accessibile a tutti. Tra gli intervistati ci sono padre Alex Zanotelli, il commissario europeo all’Ambiente Virginijus Sinkevičius, il professor Antonello Pasini dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del CNR, Andrea Agapito Ludovici del Wwf Italia e il filosofo Roberto Mancini. L’attuale contesto internazionale e la crisi energetica che si è creata rischiamo di creare un forte rallentamento nel raggiungimento degli obiettivi dell’agenda 2030”.

L’acqua è limpida, trasparente, fresca, evoca qualcosa di semplice, puro, vero. Ha un suo valore spirituale?

“L’acqua richiama la vita, ha un valore simbolico di rigenerazione, così come ce l’ha il volontariato vigile e critico all’interno della società. Il volontariato ha la propensione storica a essere precursore di nuove frontiere dell’umano perché ha la capacità di cogliere i bisogni appena si manifestano e di offrire risposte immediate, spesso ben prima dell’intervento delle istituzioni pubbliche. La sua azione dovrà allora fondarsi sull’esercizio di quella coscienza anticipante suggerita da Ernst Bloch, che consente di far comprendere l’inaccettabilità di ciò che nella mentalità corrente viene definito ‘normale’ e consente anche di denunciare, criticamente, i processi degradanti che sfigurano la dignità di tante persone. Il volontariato ci ricorda anche che l’essere umano è un essere incompiuto che ha bisogno della cura degli altri per realizzarsi, ma anche di prendersi cura egli stesso del bene e della vita di altri. Ciò richiede di uscire dalla logica dell’aiuto per entrare, effettivamente, nella logica del prendersi cura, della condivisione e della giustizia risanatrice. In tale logica non si può fissare rigidamente chi dà e chi riceve, perché anche quando qualcuno è in una condizione di bisogno chi se ne prende cura deve agire con spirito maieutico per far rifiorire l’altro alla sua condizione di soggetto, soggetto di un bene che è comune, e non di oggetto di aiuto. Tale prospettiva di cura vicendevole è ben raffigurata dall’immagine biblica del figliol prodigo (Lc 15,20) dove il Padre, mosso da compassione, corre e si getta al collo del figlio. È quindi lo stesso Padre che si sorregge al figlio a conferma che la cura è un movimento più circolare che lineare e unidirezionale. Nelle relazioni di volontariato sperimentiamo che ogni essere umano è dono vivente e incondizionato, la cui dignità costituisce una dismisura che orienta la misura della giustizia. Il volontariato non riguarda tanto il dare, ma anzitutto l’essere, cosicché la giustizia si mostra adeguata quando si orienta alla dignità incondizionata della persona riconoscendo il valore di ciascuno nello spirito della sua gratuità incarnata. Serve quindi un pensiero più consapevole, che coniughi orientamento esistenziale, coscienza etica e impegno civile promuovendo una forma di convivenza all’altezza della dignità umana”.

Lei è tra i fondatori di “Ho avuto sete”, associazione che oggi festeggia il suo decimo anno di vita. Ci traccia un bilancio di questa attività decennale?

“Siamo una realtà giovane nata da un gruppo di amici, tra Modena, Reggio Emilia e Bologna, che nel tempo è cresciuta. ‘Ho avuto sete’ costruisce impianti idrici di acqua potabile nei villaggi dove manca, operiamo in 14 Paesi al mondo e ogni impianto idrico che realizziamo fornisce l’acqua potabile a circa 1.000/1.500 persone. Grazie a quell’acqua potabile il villaggio fiorisce, sviluppa attività di allevamento e agricoltura e, soprattutto, si eliminano le malattie dovute all’uso di acqua di cattiva qualità. Oltre a questo, siamo accanto ai ragazzi delle scuole del Burkina Faso e della Repubblica Centrafricana, operiamo per rendere più umane le condizioni dei detenuti colpiti da malattie infettive in Malawi, raccogliamo fondi per sostenere le famiglie in difficoltà in Libano e abbiamo dato il nostro contributo alla ricostruzione post-sisma nella Bassa modenese e nelle Marche e per la lotta contro il Covid-19 negli ospedali della nostra provincia. Per finanziare questi progetti attività organizziamo eventi sociali, artistici e culturali aventi ad oggetto la sete esistenziale e spirituale delle donne e degli uomini del nostro tempo. Lo scopo è quello di offrire alla cittadinanza delle occasioni di riflessione su tematiche esistenziali aperte a tutti, credenti e non credenti, o meglio ancora, pensanti e non pensanti, come ricordava il cardinal Carlo Maria Martini, utilizzando una felice espressione di Norberto Bobbio. Questo perché, come per la sete d’acqua, anche per la sete esistenziale, cioè la sete di senso dell’esistenza – inteso, proprio, come direzione – c’è una certa emergenza tanto che l’uomo contemporaneo è stato definito, dalla psicanalista francese Catherine Terninck, ‘l’uomo di sabbia’ cioè l’uomo che ha smesso di curare la propria interiorità, la dimensione spirituale della sua vita e si è quindi desertificato interiormente”.

Il vostro ultimo progetto, il cinquantesimo, è anche un dono speciale.

“Un impianto idrico di acqua potabile per la scuola del villaggio di Nèdogo nella provincia di Koupèla, in Burkina Faso, ne facciamo dono a papa Francesco. Questo progetto è frutto di una collaborazione e di un’amicizia storica che abbiamo con la Caritas locale (OCADES) perché quando è nata ‘Ho avuto sete’ abbiamo ricevuto l’amicizia e il supporto dell’allora Rettore dell’Almo Collegio Capranica di Roma monsignor Ermenegildo Manicardi, che ci ha messo in contatto con gli alunni del Collegio  burkinabè divenuti in seguito i nostri referenti dei progetti in loco”.

Cos’hanno significato per lei questi dieci anni di volontariato?

“Una serie di doni e di esperienze belle e inedite che come solo la vita può effettivamente proporre. Mi hanno insegnato ad alzare lo sguardo sull’umanità futura. In quei Paesi vedi migliaia di giovanissimi e capisci che respiri un pezzo del domani, e a capire che occorre uscire da pregiudizi insopportabili, cominciando a parlare di Africa con gli africani”.

C’è stato un incontro che ricorda in modo particolare?

“In un ospedale in Burkina Faso una volta ho visto un ragazzo con gravi difficoltà fisiche e quando gli ho chiesto quanti anni avesse mi ha risposto dicendo ‘Dio mi ha donato 30 anni’. Aveva un sorriso di gratitudine per il dono della vita che non dimenticherò mai”.