Senza braccialetti elettronici niente domiciliari

Nel sistema carcerario ci sono anomalie che espongono l’Italia a reiterati richiami comunitari e internazionali: il sovraffollamento delle celle e l’elevato numero di persone in custodia cautelare dietro le sbarre. Ma la questione più clamorosa che emerge da “Il carcere secondo la Costituzione”( il 15° Rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia) è la cronica mancanza di braccialetti elettronici. Per la stesura dell’ultima edizione del Rapporto sono state visitate 85 carceri sull’intero territorio italiano prendendo in considerazione tutti i diversi aspetti della detenzione: popolazione detenuta, personale coinvolto, volontari, detenuti stranieri, tipologia di reato, istruzione, misure alternative.

Soggetti deboli

Da trent’anni ad Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, aderiscono magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. “L’Italia resta tra i Paesi in Europa che maggiormente ricorrono al carcere prima della sentenza definitiva, soprattutto quando gli imputati sono stranieri – documenta Antigone -. In ritardo la fornitura dei braccialetti elettronici. La custodia cautelare in carcere colpisce maggiormente i soggetti socialmente più deboli che incorrono nelle maglie della giustizia”. In carcere da presunti innocenti, quindi. Al 31 dicembre 2018 i detenuti in custodia cautelare in carcere erano 19.565, per una percentuale di detenuti ancora in attesa di una sentenza definitiva pari al 32,8% del totale della popolazione carceraria.

Suicidi dietro le sbarre

L’Italia si colloca al quinto posto dei Paesi dell’Unione Europea per tasso di detenuti presunti innocenti. Per i detenuti stranieri la percentuale di custodie cautelari si alza al 38% (tra le donne straniere addirittura al 40,3%). Per i soli detenuti italiani essa è pari al 30,2%. “In sofferenza l’utilizzo dei braccialetti elettronici per mancanza di dispositivi- attesta il rapporto-. Ciò non permette così l’uscita di persone per le quali vi sarebbe la concessione da parte del giudice degli arresti domiciliari invece della custodia cautelare in carcere”. Nel 70 per cento dei suicidi dietro le sbarre, il detenuto era privo di una condanna definitiva, ovvero presunto innocente.

Gare d’appalti e forniture

In sofferenza, quindi, l’utilizzo dei braccialetti elettronici per mancanza di dispositivi, che non permette così l’uscita di persone per le quali vi sarebbe la concessione da parte del giudice degli arresti domiciliari invece della custodia cautelare in carcere. Terminato il 31 dicembre 2018 il contratto con Telecom (che nell’ambito di una convenzione quadro con il dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno ha garantito, a partire dal primo gennaio del 2012, la fornitura di fino a 2.000 braccialetti contemporaneamente attivi) non è “tuttavia ancora partita la fornitura di Fastweb, che nel 2017 si era aggiudicata il nuovo bando di gara per oltre 19 milioni di euro (più iva al 22%)”. Il servizio, specifica Antigone, “doveva partire nell’ottobre 2018, ma ciò non è accaduto a causa del ritardo da parte del Ministero dell’Interno della nomina della commissione di collaudo”.

Cambiamenti legislativi

Negli ultimi dieci anni la percentuale dei detenuti presunti innocenti è stata tendenzialmente in continua diminuzione. All’inizio del decennio (quando le percentuali maggiori di custodia cautelare si riscontravano in Liguria, Campania, Lazio ed Emilia Romagna) aveva in ciò un grande peso il progressivo allontanamento temporale dall’indulto del luglio 2006, che aveva visto uscire dal carcere 26.000 detenuti. Il provvedimento di clemenza, avendo ovviamente riguardato i soli condannati, aveva infatti lasciato un numero percentualmente molto elevato di detenuti senza sentenza definitiva. A partire dal 2013, tra le motivazioni del calo vanno senz’altro annoverati anche i cambiamenti legislativi che hanno limitato le possibilità di ricorso alla custodia cautelare. La stragrande maggioranza degli ingressi negli istituti di pena riguarda persone in custodia cautelare.

Riduzione degli ingressi

Su tutto questo si stende la progressiva riduzione degli ingressi in carcere che si avvia proprio dieci anni fa, segno di una diminuzione essenzialmente della quantità degli arresti e dunque della custodia cautelare in carcere. La stragrande maggioranza degli ingressi negli istituti di pena riguarda infatti persone in custodia cautelare. “Ben più raro è l’ingresso in carcere in esecuzione di una sentenza che è stata attesa a piede libero- ricostruisce il Rapporto-. Dei 48.144 ingressi in carcere del 2017, ultimo dato disponibile in maniera disaggregata, ben 37.730, pari al 78,4% del totale, ha riguardato persone in custodia cautelare. Non accade questo in altri Paesi europei quali la Francia (dove la percentuale è stata del 57,5%), la Spagna (52,9%), i Paesi Bassi (42%) o la Svizzera (31,3%). Paesi dove è dunque percentualmente più frequente che si attenda la certezza della colpevolezza prima di procedere alla carcerazione”.  A fronte di una percentuale tanto alta di ingressi in carcere per custodia cautelare, non si riscontra una corrispondente percentuale nelle uscite. Sempre nell’arco del 2017, solo il 36,1% di coloro che hanno visto aprirsi le porte delle carceri italiane era detenuto in custodia cautelare. Del 32,8% di detenuti non definitivi alla fine del 2018, il 16,5% era in attesa del primo giudizio mentre il rimanente 16,3% era composto da detenuti condannati senza sentenza definitiva, vale a dire appellanti, ricorrenti o detenuti presentanti una posizione mista senza sentenza definitiva. I due gruppi sono stati negli ultimi anni sempre più o meno equamente distribuiti.

Consiglio d’Europa

“Se diamo uno sguardo agli ultimi dati pubblicati dal Consiglio d’Europa e riferiti al 31 gennaio 2018, quando la percentuale italiana di detenuti senza sentenza definitiva era pari al 34,5%, vediamo che essa si colloca decisamente al di sopra del valore medio europeo, che era pari al 26% (mentre il valore mediano era addirittura pari al 22,4%)”, puntualizza Antigone. Alla fine del 2017, dei 1.165.339 processi penali pendenti in primo grado il 19% aveva superato la durata di tre anni stabilita quale durata ragionevole massima (era il 18,9% a fine 2016 e il 21% a fine 2015). In 222.372 procedimenti i soggetti coinvolti potevano dunque attivare la cosiddetta ‘legge Pinto’ per chiedere allo Stato un risarcimento. Al 31 dicembre 2017, rispetto ai 271.247 processi pendenti in Corte d’Appello, il 39,4% superava la soglia stabilita dei due anni, mentre per la Cassazione (24.609 procedimenti pendenti) la soglia della ragionevole durata di un anno veniva superata nell’1,3% dei casi. Per quanto riguarda invece i 40.151 processi pendenti davanti al Tribunale per i minorenni, era il 14,9% a superare i tre anni di durata.