Migranti, Mirabelli: “Non basta la politica di un solo Stato”

Nonostante la risoluzione dell'ennesimo caso Sea Watch, la questione migratoria continua a non essere inquadrata sotto un'ottica comunitaria. Una divisione che, ogni volta, genera situazioni d'impasse politica direttamente legate al deterioramento progressivo, fisico e psicologico, di quanti restano per giorni a bordo di una nave in attesa di una risoluzione burocratica. A un'analisi ripetuta, ciò che emerge è la necessità di una politica europea che vada a coinvolgere i vari Paesi su un piano umanitario ma anche e soprattutto normativo: “Ciò che manca è una visione d'insieme – ha spiegato a In Terris Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale -, l'applicazione di una politica generale che non può essere quella di un solo Stato”.

 

Presidente, il dramma delle migrazioni ha nuovamente provocato un difficile periodo di stallo politico e la questione dell'accoglienza continua ogni volta a dividere, pur trattandosi di situazioni direttamente connesse al diritto umanitario. Come può essere sciolta una tale matassa?
“Anche la decisione provvisoria della Corte di Strasburgo, pur imponendo di dare assistenza alimentare e sanitaria alla nave, non ha disposto lo sbarco delle persone a bordo. Il problema è molto complicato ma, per quanto riguarda la nostra Costituzione, posso dire che questa è molto aperta per quel che riguarda il diritto di asilo, la cui disciplina rimette poi alla legge, perché attribuisce il diritto di asilo anche a chi non gode nel suo Paese quelle libertà che sono garantite nel nostro testo costituzionale. I problemi che ci troviamo di fronte riguardano in parte il diritto di asilo ma anche una situazione molto più ampia e la visione a cui si arriva è quasi quella di un diritto individuale. Adesso siamo invece in una condizione in cui, per gli squilibri che ci sono in molte parti del mondo, esiste una tendenza all'emigrazione collegata a esigenze di trovare condizioni migliori di vita. Manca però una visione d'insieme, una politica generale che non può essere quella di un solo Paese”.

Come si dovrebbe procedere?
“Per quanto riguarda il diritto del mare, vige l'antica tradizione di soccorrere il naufrago in difficoltà. E' una forma di solidarietà verso chiunque si trovi in condizioni di pericolo. Anche questo, però, è un elemento che appare insufficiente nella situazione attuale: a volte si ha l'impressione che ci sia una sorta di sistema di pericolo procurato e che esista una struttura organizzata per determinare più un'immigrazione verso gli altri Paesi che non una fuga per richiesta d'asilo. Detto questo, una condizione di pericolo impone un soccorso e poi vedere, perché è evidente che questo non sempre da un diritto a entrare nel territorio di un altro Stato. Occorre davvero che le convenzioni internazionali intervengano e, nella prospettiva del medio periodo, creino condizioni per cui non si verifichino episodi simili”.

In che modo?
“I fenomeni migratori sono sempre esistiti, pensiamo a quanti italiani sono in altri Paesi. Ma questo è avvenuto con flussi ordinati, il che significa non sulla base di uno sfruttamento o di una messa in pericolo intenzionale ma con criteri di accoglienza organizzata”.

Al di là della questione dei porti aperti o chiusi, il deficit è dunque l'assenza di un protocollo efficiente a livello comunitario?
“Manca una visione generale. Posto che in una situazione drammatica di pericolo non ci sono regole che possano impedire l'aiuto, secondo me si tratta di un fenomeno nuovo che può dar luogo a forme di sfruttamento, schiavitù… Occorre che ci sia una visione d'insieme, individuando in parte le cause e intervenendo con le modalità adeguate. Ad esempio, verificare quanto e quale fabbisogno di persone c'è in una determinata area, nel nostro Paese come in altri; quanta forza lavoro è presente e di quanta ce ne sarebbe bisogno. E questo può essere il modo per operare una immigrazione corretta”.

Le difficoltà, però, oltre che sull'inquadratura del ruolo in mare delle ong si riscontrano spesso anche nella politica di ridistribuzione…
“Bisognerebbe arrivare a non avere fenomeni in queste forme attraverso un'immigrazione regolare. L'esperienza dei corridoi umanitari individua alla fonte chi può venire e con quale destinazione. Anziché andare all'avventura in mare od organizzare dei trasbordi, si arriva in condizioni di sicurezza senza essere soggetti a sfruttamento o violenze. Tutto questo imporrebbe, ancor prima, di vedere innanzitutto le dimensioni del fenomeno, poi gli strumenti che ci possono essere, perché già dai Paesi di partenza si possa individuare la modalità di accesso, un viaggio sicuro e il controllo di chi ha diritto come richiedente asilo e di chi può essere accolto, perché magari c'è la possibilità di inserirlo nel mondo lavorativo. Va tenuto conto che in molti settori è dominante la presenza di stranieri. Questo è più complicato ma sarebbe pagante. L'attenzione al breve periodo rischia di esaurirsi al caso singolo: può essere una risposta sbagliata sia questa che un'apertura disorganizzati”.

A bordo di queste navi, quasi nella maggior parte dei casi, si trovano minori anche non accompagnati. La loro situazione?
“Per i minori certamente c'è un dovere doppio di garanzia. Anche qui è da vedere quanto non siano essi stessi sfruttati: tutti sono in una condizione di bisogno e di grande debolezza, i minorenni in particolare ma sono i più deboli anche per lo sfruttamento che possono avere, sia da chi ne ha gestito la partenza e sia per i rischi che corrono nell'ingresso in un territorio straniero. E' una situazione del tutto particolare e anche questo trovare perlomeno una diversa impostazione, creare condizioni per un trasferimento controllato che consenta l'accoglienza e la non dispersione. Ci sono casi nei quali si arriva e si scompare, altri in cui l'arrivo è una nuova sottoposizione a difficoltà proprio perché non c'è un'accoglienza adeguata”.

E da un punto di vista legislativo?
“I minori sono comunque protetti e tutelati”.

Una procedura governativa su un caso di immigrazione ha aperto un dibattito sulla possibilità che un ministro possa aver commesso un reato nel ritardare lo sbarco di alcune persone. Su questo aspetto cosa prevede la normativa vigente?
“L'accusa è che un ministro avrebbe commesso un reato nell'esercizio delle sue funzioni, cioè che un atto compiuto come ministro, quindi non personale, costituirebbe reato. Un tempo, i cosiddetti reati ministeriali prevedevano che il Parlamento mettesse in stato d'accusa e che il giudizio fosse attribuito poi alla Corte Costituzionale. Questo aveva dato luogo al Processo Lockheed. Successivamente è mutata la disciplina costituzionale, riconducendo il giudizio per i reati ministeriali alla giurisdizione ordinaria ma con una garanzia, destinata ad assicurare una separazione dai poteri. L'articolo 96 della Costituzione prevede che quando ci sia un'accusa per un reato commesso nell'esercizio delle funzioni governative occorra l'autorizzazione della camera alla quale appartiene il ministro, un procedimento diverso dall'immunità parlamentare. Questa autorizzazione può essere negata con il voto della maggioranza degli aventi diritto (che si misura sui componenti dell'assemblea) quando l'atto si ritiene compiuto nell'interesse preminente dello Stato. Perciò si tratta di un giudizio politico. Questo non significa che il reato esiste: dev'essere chiesto dalla Magistratura, dopodiché se viene autorizzato si celebrerà il processo per vedere se c'è realmente o meno. Da un punto di vista formale la procedura è questa”.

Nonostante l'interdizione posta sul braccio di mare, un gruppo di parlamentari ha ottenuto una deroga per recarsi a bordo della Sea Watch parlando di “esercizio di prerogative”. A cosa ci si riferisce?
“E' un'attività che possono svolgere ma non vedo quale sia la lesione dei diritti. Le prerogative dei parlamentari, ad esempio, concedono di poter entrare nelle carceri e dialogare con i detenuti. Forse si riferivano a un esercizio di una funzione di conoscenza che è utile e necessaria per lo svolgimento delle loro funzioni parlamentari. Ma noto un eccesso di drammatizzazione in questo senso, quando da un punto di vista se non altro umano ciò che davvero è pesante è che queste 47 persone sono rimaste in una situazione di sofferenza. C'è una grande vicenda politica su questa situazione ma un elemento che poi quantitativamente non è significativo ma lo è simbolicamente. Questo riguarda non solo il nostro Paese perché, ad esempio, gli olandesi hanno dato una risposta affermando che avrebbero preso coloro che, dopo verifica, fossero realmente richiedenti asilo. Sostenzialmente hanno dato un sostegno alle posizioni governative di chi dice che non devono sbarcare. Sono episodi che dovrebbero far riflettere la Comunità internazionale ed europea affinché si faccia carico della situazione, tenendo presente che la finalità non è chiudere o aprire a priori ma prendere atto degli squilibri esistenti e trovare una soluzione per superarli”.