Libertà di stampa: l’Italia sale al 52esimo posto nella classifica di Rsf

L’Italia guadagna 25 posizioni nella classifica annuale di Reporters sans Frontieres sulla libertà di stampa, passando dal 77/o al 52/o posto. Restano “intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce”, e “pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali”. Tra i problemi indicati anche l’effetto di “responsabili politici come Beppe Grillo che non esitano a comunicare pubblicamente l’identità dei giornalisti che danno loro fastidio”.

Nel rapporto 2017, dopo che l’anno scorso il 77/o posto dell’Italia provocò molte polemiche, si sottolinea che “sei giornalisti italiani sono sempre sotto protezione della polizia 24 ore su 24 dopo minacce di morte da parte di mafia o gruppi fondamentalisti”. Inoltre, “il livello di violenze contro i reporter (intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce…) è molto preoccupante, mentre alcuni responsabili politici – come Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle – non esitano a comunicare pubblicamente l’identità dei giornalisti che gli danno fastidio”. I giornalisti, si legge ancora nel capitolo dedicato all’Italia, “subiscono pressioni da parte dei politici ed optano sempre più per l’autocensura: un nuovo testo di legge fa pesare su chi diffama politici, magistrati o funzionari, pene che vanno da 6 a 9 anni di carcere”.

Secondo Rsf nel mondo mai la libertà di stampa “è stata così minacciata”. La situazione viene definita “difficile” o “molto grave” in 72 paesi, fra cui Cina, Russia, India, quasi tutto il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’America centrale, oltre che in due terzi dell’Africa. Ventuno i paesi classificati come “neri”, in cui la situazione della libertà di stampa è “molto grave“: fra questi Burundi 160/o su 180), Egitto (161) e Bahrein (164). Ultima assoluta, come negli ultimi anni, la Corea del Nord, preceduta da Turkmenistan ed Eritrea. Male anche Messico (147) e Turchia (155). In testa alla classifica, sempre i paesi del Nord Europa, ma la Finlandia cede il primo posto che deteneva da 6 anni alla Norvegia, a causa di “pressioni politiche e conflitti d’interesse”.