Pio XII, i cattolici e le elezioni del '48

Settant'anni fa gli italiani furono chiamati alle urne per eleggere il Parlamento della Prima legislatura dopo il ventennio fascista (nel 1946 si erano svolte le elezioni per la Costituente insieme al referendum istituzionale). Una data decisiva per il futuro del nostro Paese perché ancorò saldamente l'Italia al blocco occidentale, rafforzò la neonata democrazia ed evitò il rischio di finire nell'orbita sovietica. Il 27 aprile è in programma a Genova un convegno per ricordare quelle consultazioni e in particolare il ruolo di Pio XII e l'impegno dei cattolici per la libertà, organizzato dal Comitato Papa Pacelli – Associazione Pio XII. Tra i relatori, oltre al professor Giulio Alfano della Lateranense, figura l'avvocato Emilio Artiglieri, 58 anni, presidente del Comitato, postulatore in diverse cause di beatificazione. In Terris lo ha intervistato.

Le elezioni del 18 aprile 1948 furono uno spartiacque per la democrazia italiana. Quale fu il ruolo di Pio XII?

“Fu molto importante soprattutto nel suscitare la consapevolezza della gravità dell’ora. In più allocuzioni Pio XII aveva sottolineato l’importanza decisiva di quel momento, il momento della prova, non più della teoria ma quello in cui ci si deve impegnare, agire, rispondere all’impulso della propria coscienza. Un’importanza cruciale, dunque. E questo fu in qualche modo lo scopo dei Comitati Civici che Luigi Gedda promosse su indicazione del Papa. Non si trattava tanto di dare un’indicazione di voto, anche se era sottintesa, quanto di portare le persone a votare, di renderle consapevoli dell’importanza di un confronto decisivo per la democrazia italiana ma anche per la vita della Chiesa, visto quello che succedeva nell’Europa orientale, dove erano già evidenti le prove di come si comportavano i regimi marxisti”.

La fine di un incubo, come si intitola una delle relazioni del prossimo convegno di Genova.

“Esatto. Bisognava evitare di arrivare a una situazione simile a quella dei Paesi nell'orbita sovietica, anche se magari non proprio dei regimi più feroci, sebbene in Italia le minacce non mancassero. Tanti testimoni ricordano come le persone vissero quelle elezioni appunto come la fine di un incubo, di questo timore di una vittoria dei comunisti. Non dimentichiamo quello che era successo subito dopo la guerra. Sappiamo quanti massacri si erano consumati dopo il 25 aprile, sia di fascisti che di persone che fasciste erano ma erano considerate non ostili al precedente regime. Oppure per vendette personali: c'era il timore non solo di un nuovo regime dittatoriale ma più in generale di violenze diffuse”.

Fu la vittoria della Dc o dei Comitati Civici?

“Ritengo che sia stata una vittoria di entrambe le realtà ma soprattutto dei Comitati, proprio alla luce della forte differenza di voti presi dalla Dc nel 1946 e nel 1948. E' quella differenza che ha dato stabilità, dovuta proprio al richiamo della Chiesa. Ricordiamo anche le famose vignette, i manifesti e gli slogan, come 'Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no', che servivano a richiamare la drammaticità di quel confronto. Pio XII il 28 marzo, pochi giorni prima delle elezioni, fece un discorso molto chiaro: 'Voi diletti figli e figlie ben comprendete cosa un tale bivio significhi e contiene in sé per Roma, l’Italia e il mondo'. Siamo a un bivio secondo Pio XII. E questa è l’opera principale del Papa in quella circostanza: aver scosso in qualche modo le coscienze degli italiani richiamando la gravità del momento e attraverso i Comitati Civici aver dato concretezza a questo richiamo”.

Lei ha ricordato che “furono mobilitati fino all’ultimo prete e all’ultima parrocchia”. Non fu in qualche modo una 'indebita ingerenza del Vaticano'?

“Ma in questo caso la drammaticità del momento dava spiegazione di quella che potrebbe sembrare un’ingerenza. Non erano elezioni come le altre, era un crinale per la civiltà italiana. Una vittoria del Fronte popolare avrebbe significato quanto meno una forte riduzione della libertà della Chiesa se non una vera e  propria persecuzione come avveniva nei Paesi sotto controllo sovietico. Quindi il richiamo era più che giustificato”.

Cosa rappresentò l'esito di quelle elezioni?

“Non fu solo un successo elettorale ma fu soprattutto una vittoria della cultura cattolica che nasceva dalla Rerum Novarum, dal magistero di Pio XI, dai radiomessaggi di Pio XII. Richiamare questo aspetto è anche il senso del convegno di Genova. Non dimentichiamo poi il Codice di Camaldoli del '43, pubblicato all'inizio del '45, alla cui stesura avevano partecipato quelli che diventeranno i grandi protagonisti della storia repubblicana come Moro, Andreotti, Vanoni. C'era un pensiero: quello che occorre sottolineare è proprio questo. Dietro il risultato del 18 aprile c'è la vittoria di un pensiero cattolico. Ricordiamo che il Codice di Camaldoli era stato fortemente sostenuto da Montini ed è interessante vedere come le figure di Pacelli e di quello che diventerà Paolo VI erano molto più vicine di quanto si possa pensare”.

Perché Gedda fu emarginato dopo quelle elezioni? E quale fu l'atteggiamento di Pio XII?

“Gedda in realtà non ambiva ad avere delle responsabilità politiche dirette. Gli fu proposto un seggio senatoriale ma non accettò. Più che esser messo da parte direi che l'evoluzione politica valorizzò linee diverse, soprattutto dopo la morte di Pio XII, al quale Gedda fu molto legato fino alla fine, per tanti aspetti, come dimostra la frequentazione assidua che aveva con il Papa”.

A 70 anni di distanza il ruolo dei cattolici in politica appare sempre più marginale, in Italia e non solo. Che ne pensa?

“Ritengo che il problema sia legato a quanto dicevo prima ossia al fatto che bisogna riscoprire il pensiero cattolico perché non basta scendere nell'agone politico, bisogna farlo con idee precise. Il '48 ha segnato la vittoria di una precisa visione antropologica, quella dell'uomo che ha una dignità. Il famoso radiomessaggio di Natale del 1944 di Pio XII non a caso fu dedicato alla democrazia perché, diceva il Papa, come il Natale manifesta la grande dignità dell'uomo per cui Dio si incarna e l'uomo è nobilitato dall'Incarnazione del Figlio di Dio, occorre anche un regime politico che sia conforme a tale dignità. Ecco perché il radiomessaggio parla della democrazia, al di là delle concrete declinazioni che può avere nei vari popoli e nelle circostanze storiche, dal punto di vista del rispetto per la libertà e la dignità della persona umana. Ma Pacelli ammonisce anche, e lo faranno pure i suoi successori, sul rischio che la democrazia possa diventare totalitaria nel momento in cui non riconosce dei valori superiori a sé. Bisogna quindi garantire la democrazia (anche attraverso l'opera della Chiesa e del richiamo alla legge morale che è superiore a quella dello Stato) dal pericolo di assolutismi che possono esistere anche in regimi democratici. E certe vicende attuali ci richiamano proprio al rischio che leggi dello Stato possano essere considerate qualcosa di invalicabile quando anche fossero contrarie alla legge di Dio e al bene vero dell'uomo”.

Oltre alla mancanza di un pensiero forte non c'è anche una mancanza di coraggio nei cattolici che si impegnano in politica?

“Certamente c'è quello che il cardinal Siri chiamava il 'complesso di inferiorità' che però è connesso alla mancanza di consapevolezza del pensiero cattolico e anche di quelli che sono stati i nostri maestri, i nostri grandi padri. Certe volte si fa riferimento a personaggi di altre tradizioni, quasi che in ambito cattolico non ci siano personaggi importanti, grandi pensatori, un nome per tutti Toniolo ma anche per esempio Fanfani, che hanno dato un contributo importante. Invece si va a mendicare in casa d'altri quando in casa nostra avremmo tanti spunti importanti e che servirebbero a trovare quel coraggio che manca. Riscoprire queste radici, questi grandi personaggi, questi grandi principi è quello che serve per recuperare coraggio. Altrimenti si resta in posizioni di sudditanza culturale e nei complessi di inferiorità che ci impediscono di far valere la nostra visione anche attraverso la competizione elettorale”.

E questo può avvenire oggi con il sostegno dei vescovi?

“Direi che è auspicabile soprattutto riscoprire l'importanza della formazione. Penso che i vescovi possano agire non tanto a livello di interventi diretti, perché non è compito loro entrare nella contesa politica, se non in casi indispensabili per salvaguardare certi princìpi, quanto nel favorire una adeguata preparazione dei laici”.

In definitiva cosa rappresenta oggi l'anniversario del 18 aprile?

“Significa un po' la riscoperta di quel pensiero che è stato vincente all'epoca e che ritengo possa esserlo ancora”.