Dati non omogenei sulle varianti Covid presenti in Italia

I metodi utilizzati non permettono di chiarire la mappa della circolazione delle varianti sul territorio nazionale, servirebbe un coordinamento centrale

I dati ricavati dalla prima flash survay sulle varianti del Sars-Cov-2 attualmente circolanti in Italia non sarebbero omogenei. Basati su tecniche di analisi diverse, non risultano infatti confrontabili tra loro. Inoltre, non emergono nel confronto quali siano gli 84 laboratori che hanno partecipato all’indagine né dove si trovino.

La notizia arriva dal virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca, e dal genetista Massimo Zollo, dell’Università Federico II di Napoli, coordinatore della Task force Covid-19 del Ceinge-Biotecnologie avanzate. Secondo gli scienziati sarebbe necessario un programma nazionale centralizzato per le indagini.

La necessità di un coordinamento nazionale

Attualmente, rilevano i due esperti, “non è possibile risalire alle regioni in cui sono localizzate le varianti. Anche la forbice trovata, che va dallo 0,5% al 59%, è troppo ampia per dare qualsiasi indicazione valida”. Dall’analisi dei dati dell’indagine rapida del 4 e 5 febbraio a cura di Ministero della Salute e Fondazione Bruno Kessler, emerge una “situazione non chiara” relativa alla forbice che dallo 0,5% al 59% di presenza della variante B.1.1.7 UK in Italia: “è una forchetta troppo ampia per avere un senso e potrebbe essere un riflesso della diversa diffusione nelle regioni, ma dipende senz’altro dalle metodiche utilizzate per rilevare le varianti”, rileva Broccolo. C’è un’eterogeneità di metodi tale che “non abbiamo i dati grezzi associati ai vari laboratori e ai diversi approcci metodologici seguiti. Di conseguenza – prosegue il virologo – non è possibile arrivare a conclusioni critiche: non sappiamo se le percentuali più basse siano associate ai territori o ai laboratori che hanno utilizzato un metodo piuttosto che un altro. A tutto questo si somma la diversità dei campioni raccolti nelle regioni”.

Dalla logica che si sta seguendo arrivano “dati insufficienti”, rileva Zollo. Per il genetista sarebbe necessario un programma con un coordinamento nazionale, e non regionale, che preveda il sequenziamento a tappeto dei campioni di virus in tutte le regioni con criteri uniformi e affidato a centri eccellenza nel campo della genetica molecolare. Un’attività di mera diagnostica di sequenziamento dell’intero virus non può essere infatti affidata agli ospedali, in quanto richiede tempi molto lunghi. Soltanto così – secondo l’esperto – ci saranno elementi sufficienti per dire se nel tempo una variante prende piede”.

Dello stesso avviso è Broccolo che rileva che, oltre al sequenziamento a tappeto dei campioni scelti con criteri uniformi, sarebbe opportuno inserire uno screening per l’identificazione delle varianti con metodi molecolari rapidi e economici già disponibili.