“Dall'elite al popolo: così cambieremo la Rai”

L'estate scorsa è stata molto calda anche in Vigilanza Rai. Ad un certo punto, quando non si riusciva a sciogliere il nodo intorno al nome di Marcello Foa come presidente, sembrava che il profilo di Giampaolo Rossi, membro del Consiglio d'Amministrazione appena eletto, fosse quello capace di mettere tutti d'accordo. Poi la quadra è stata trovata e Foa eletto alla presidenza della Rai. Ma Rossi nel CdA resta un'importante valvola culturale di quel “cambiamento” che in molti auspicano anche nel Servizio Pubblico Radiotelevisivo. Presidente di RaiNet per otto anni, durante i quali lui afferma di “aver contribuito a costruire l’intera offerta web della Rai”, è un esperto di comunicazione ed attento studioso dell'evoluzione dei linguaggi. In Terris lo ha intervistato.

A proposito di evoluzione dei linguaggi, come spiega la recente disaffezione del pubblico nei confronti dei media mainstream?
“La crisi di legittimità del mainstream è un tratto tipico di questo tempo e attraversa il cambiamento radicale in atto nelle nostre democrazie. Per mainstream intendiamo quel complesso sistema di costruzione dell’immaginario simbolico, operato dai media, che ha dato forma e sostanza al potere di un’élite tecno-finanziaria che questi media per buona parte controlla. Ma qualcosa non sta più funzionando all’interno dell’ordine costituito; il processo di disintermediazione operato dalla rivoluzione digitale e dalla rete è l’elemento determinante per capire ciò che sta succedendo. L’accesso all’informazione – e quindi alla conoscenza – oggi non ha più bisogno dei mediatori tradizionali; la grande stampa, le televisioni, l’apparato giornalistico ed intellettuale, il mosaico simbolico della comunicazione, vengono oltrepassati dalla possibilità di accedere a fonti informative indipendenti”.

Come si è giunti a questa situazione?
“Negli ultimi decenni in Occidente l’informazione da baluardo della democrazia è diventata spesso lo strumento attraverso il quale il potere (politico ed economico) ha alterato la realtà per legittimare scelte ed imporre disegni di dominio. Pensiamo alla falsa storia delle armi chimiche di Saddam Hussein con cui si è giustificata la guerra in Iraq e avviato il processo di destabilizzazione del Medio Oriente; pensiamo alla manipolazione dell’informazione sulla guerra in Libia che è servita ad alcune potenze occidentali per togliere di mezzo un fastidioso ostacolo al possesso delle risorse energetiche del Paese e che ha aperto la strada al disastro umanitario dell’esodo migratorio nel Mediterraneo. Pensiamo alla più recente guerra in Siria dipinta dai media come 'guerra civile', come una ribellione popolare contro un regime tirannico mentre si sta rivelando come una vera e propria guerra di aggressione contro uno Stato sovrano fatta da potenze occidentali e dai loro alleati mediorientali e da gruppi terroristici finanziati e addestrati. Pensiamo al modo con cui i media occidentali ma anche l’industria dell’immaginario (Hollywood in primis) hanno costruito in laboratorio i nemici dell’Occidente: ad esempio la criminalizzazione sui media di Paesi come la Russia e più in generale di quelli non allineati alle politiche imposte dalle potenze occidentali. Pensiamo all’utilizzo che l’élite globalista, attraverso il mainstream, ha fatto del tema dell’immigrazione, alla manipolazione dei dati sui flussi, alla retorica imposta dai media su accoglienza e multiculturalismo, alla criminalizzazione di chiunque provasse a mettere in discussione un fenomeno che per buona parte è indotto dal nuovo mercato degli schiavi, sul ruolo di alcune ong che spesso nulla ha a che vedere con le azioni umanitarie. Oggi assistiamo all’emergere di verità diverse da quelle imposte, a cui le persone attingono perché superano il filtro del sistema media. Questo consente ai soggetti politici e culturali anti-sistema di oltrepassare la barriera di legittimità che i media hanno sempre costruito attorno al politicamente corretto, isolando o delegittimando chiunque non appartenesse al sistema di valori dominante”.

Lei ha citato una serie di esempi di informazione manipolata dai media mainstrean. Eppure oggi si fa un gran parlare di lotta contro le fake-news…
“Infatti in buona parte è un falso problema. Mi sembra strano come il fenomeno delle fake-news sia emerso come dibattito mediatico e poi come problema politico e culturale solo all’indomani della vittoria di Trump negli Stati Uniti; dopo che il sistema mainstream è stato sonoramente sconfitto dalla nuova informazione orizzontale della rete. È indubbio che casi di informazione falsa ci sono stati ma non dimentichiamo, appunto, che da sempre il principale produttore di fake-news è stato il mainstream. In termini di influenza sull’opinione pubblica è più pericolosa la notizia fallace di un sito di contro-informazione o un apparato mediatico globale che costruisce a tavolino campagne di manipolazione e disinfromazione come è stato il caso eclatante dei Panama Papers?”.

La vittoria di Trump alle presidenziali statunitensi del 2016 è il segno tangibile di questo cambiamento che lei ha descritto?
“Sì, l’elezione di Trump ha segnato l’emergere in maniera esplosiva di questo fenomeno fino ad allora solo intuito. Per la prima volta nella storia americana, un candidato alla Presidenza non si è scontrato con il suo rivale politico (nel caso specifico la Clinton), ma con l’intero sistema mediatico che compattamente ha costruito la più feroce campagna propagandistica contro uno dei contendenti. Eppure Trump ha vinto grazie alla disintermediazione del messaggio politico; massacrato quotidianamente sui giornali, sulle televisioni, dagli intellettuali, dall’industria dello spettacolo che ha eretto attori e musicisti come maître à penser (guide morali), Trump ha deciso di parlare direttamente agli americani attraverso i social, attraverso una fitta rete di siti di contro-informazione che hanno reso virale e diretto il suo messaggio sovranista e identitario. Ora il re è nudo. In Occidente si sta scoprendo che esistono verità che soggiacciono a quelle apparenti imposte dal mainstream ed il fenomeno della contro-informazione e della mobilitazione politica attraverso la rete impone ai media di inseguire gli eventi e non più determinarli. L’esplosione dei movimenti populisti e sovranisti che si oppongono al mainstream ne è la dimostrazione. Da questo punto di vista c’è un filo diretto tra Donald Trump e i Gilet gialli francesi. E non è un legame politico-ideologico”.

Mi pare di capire che per lei la disintermediazione è un fatto positivo…
“È difficile definire il processo di disintermediazione compiuto dalla rivoluzione digitale, positivo o negativo. È un fenomeno complesso che segna un punto di non ritorno nel modo in cui la società moderna organizza l’accesso al sapere e la diffusione della conoscenza. Ci sono fasi nella storia in cui i processi di disgregazione procedono velocemente ed in maniera irreversibile. Sono accelerazioni, fratture che disintegrano gli equilibri interni di un sistema. Oggi stiamo attraversando proprio una fase del genere. Manuel Castells, uno dei più importanti sociologi della comunicazione, scrisse anni fa: 'I media non sono il Quarto Potere, sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere'. I media non sono un luogo neutro ma uno spazio che identifica il potere, dove il potere definisce se stesso e dove impone le sue regole. Ecco, oggi questo spazio è stato in parte occupato dai social, dal web, dalla contro-informazione che viene dal basso e questo impone una nuova definizione del potere delle nostre democrazie”.

Certi recenti risultati elettorali testimoniano un redivivo interesse nei confronti della difesa di concetti che la globalizzazione sembrava aver cancellato, come i confini nazionali, la difesa della cultura particolare e delle tradizioni. Oltre all'insorgere della disintermediazione, assistiamo al passaggio dal “villaggio globale” ai “villaggi del globo”?
“È un’osservazione calzante. Mi pare che stiamo attraversando una fase di recupero della realtà dopo la sbornia ideologica del decennio precedente. La globalizzazione sembra aver tradito i presupposti su cui si era fondata, come processo storico finalizzato all’abbattimento delle disuguaglianze economiche e portatore di un nuovo clima di pace mondiale. Sopratutto in Occidente e nei Paesi più avanzati, emergono con chiarezza i limiti di un progetto economico e sociale (e di una visione) che punta alla creazione di un unico modello di sviluppo, il One World voluto dall’élite egemone all’interno di un mondo senza più confini ed in cui identità, culture, nazioni – cioè tutti i fenomeni che costruiscono il senso ed il destino di una comunità – vengono visti come ostacolo e quindi devono essere abbattuti. Non solo, ma la finanziarizzazione dell’economia all’interno di un’ideologia liberista estrema – non liberale – accentua questo processo”.

In che modo?
“Economicamente la globalizzazione si sta configurando come la concentrazione di una quantità sempre maggiore della ricchezza mondiale nelle mani di un sempre minor numeri di soggetti; oggi oltre l’80% della ricchezza globale è detenuta dal 2-3% della popolazione del pianeta. In Occidente questo fenomeno comporta la crisi della classe media, la sua tendenza all’estinzione, il suo impoverimento e come conseguenza la crisi stessa delle democrazie che nella 'borghesia' (imprenditoriale, produttiva e culturalmente evoluta) hanno avuto il loro fondamento. Un’élite sempre più potente, ricca, capace di gestire il potere immane della tecnica e dell’immaginario, si sta imponendo sul resto di una popolazione sempre più povera. I cantori della globalizzazione esaltano il fatto che complessivamente in ampi territori di quello che un tempo era il Terzo e Quarto mondo, oggi il tenore di vita stia crescendo ed un numero considerevole di persone stia uscendo dallo stato di assoluta povertà; ma tralasciano l’impoverimento complessivo di ampi strati di popolazione dei Paesi più avanzati, la conseguente perdita di fiducia del futuro, la crisi valoriale, i conflitti sociali endemici, il tutto accentuato dal fallimento del progetto multiculturale imposto attraverso l’immigrazione indotta che rischia di trasformare le nostre nazioni in campi di battaglia tra identità inconciliabili tra loro. La globalizzazione sta producendo un livellamento senza precedenti, dentro una società a due sole classi sociali: una élite con in mano un sempre più grande potere economico (e decisionale) in grado di gestire anche i flussi informativi (e formativi) e una massa sempre più povera, dipendente da questa élite e dall’immaginario che essa costruisce. Una sorta di comunismo post-moderno prodotto dal capitalismo estremo. Ed in questo progetto globalista, le identità nazionali e religiose, proprio perché pericolose costruttrici di senso, devono essere annullate all’interno di una massa indistinta e perfettamente funzionale al sistema di dominio. Il fatto è che oggi il gioco è scoperto e in Occidente i popoli non hanno più intenzione di sottomettersi docilmente al proprio suicidio assistito. La rivendicazione delle propria radici culturali in Europa, il ritorno ad un desiderio di sovranità nazionale di fronte allo svuotamento delle democrazie, sono le risposte che i cittadini europei danno ad una globalizzazione imposta dall’élite”.

Prima ha parlato di costruzione di un immaginario simbolico da parte delle élite: come giudica la proposta, in voga in influenti ambienti progressisti, dell’introduzione del suffragio limitato per livello d’istruzione? Proprio i paladini dell’uguaglianza sono giunti a predicare una simile discriminazione?
“Uno dei tratti del nostro tempo è la fine irreversibile dei due principali dogmi ideologici della sinistra mondiale che hanno dominato il dibattito culturale e l’immaginario simbolico di milioni di persone per circa un secolo. I due dogmi sono: progresso e uguaglianza. Ma già Ernst Jünger, una delle più lucide intelligenze del ‘900, in un suo scritto ricordava che 'gli uomini sono fratelli ma non eguali'. La sinistra ormai è in preda ad una sorta di fobia da estinzione; da oltre un decennio in Occidente essa è diventata lo strumento politico e culturale dell’élite finanziaria e tecnocratica. Si è infilata dentro un tunnel di irrealtà che non le consente di comprendere il mondo che cambia; è come se dicesse a se stessa: 'siccome la realtà non è come dico io, è sbagliata la realtà e non mi sbaglio io'. Questo approccio impedisce di vedere le trasformazioni in atto in un mondo accelerato dalla potenza della tecnica. Per esempio è difficile capire come possano gli intellettuali di sinistra e i loro politici non accorgersi che questa immigrazione in Europa non è un destino storico ma un processo indotto; uno strumento di dominio delle classi egemoni attraverso il quale disarticolare il sistema di valori e di diritti che la sinistra stessa a contribuito a costruire nel secolo passato; il suo obiettivo è generare manodopera a basso costo per la nuova organizzazione del modello capitalistico imposto dalla finanza mondiale. Come può questa sinistra non capire che con l’attuale processo demografico in atto, tra due decenni saranno milioni i giovani africani che premeranno per entrare in Europa scardinando i nostri già instabili equilibri, impoverendo sempre più l’Africa di speranza e di forza futura e gettando l’Europa in un caos sociale ed economico che genererà conflitti e nuove povertà?”.

L'insofferenza dell'opinione pubblica nei confronti dei media mainstream si manifesta anche verso il Servizio Pubblico: penso alle polemiche suscitate dall’intervento di Saviano in una classe liceale per blandire, senza contraddittorio, la legalizzazione della cannabis o dagli insulti della Finocchiaro rivolti agli uomini davanti a un gruppo di bambine, episodio quest’ultimo che l’ha spinta a scrivere al direttore di RaiTre Stefano Coletta. È possibile apportare un cambiamento?
“Con il ruolo di consigliere d’amministrazione, mi trovo a dover affrontare la complessità di una 'media company' che opera su un mercato articolato e che nello stesso tempo è la concessionaria del Servizio Pubblico. Ho trovato dopo molti anni una Rai completamente 'fuori sincrono' rispetto alla società italiana che deve rappresentare: informazione plurale, narrazione del Paese, costruzione di un immaginario simbolico, difesa dell’identità culturale, sono i compiti fondamentali del Servizio Pubblico. Ma in questi ultimi anni, la Rai ha abdicato a questi compiti e ha preferito raccontare l’Italia di un’élite intellettuale, liberal, spesso sprezzante dei valori culturali della nostra identità e delle sensibilità della maggioranza del Paese. La sfida del cambiamento passa proprio da qui: riconsegnare la Rai ai suoi legittimi proprietari, cioè i cittadini, rendendola narrazione del Paese reale e non dell’élite intellettuale che l’ha occupata. Spero di non rimanere da solo in questa battaglia”.