Abruzzo forte e gentile, in ricordo del Rigopiano

Oggi è un anno dalla tragedia di Rigopiano e ci vorrebbe solo il silenzio davanti alle tante morti e i tanti lutti provocati dalla slavina che colpì il resort di Farindola, vicino al Gran Sasso. Un anno fa scrivevo: “La vita e la morte, un grande mistero. Un giornalista, per fare effetto, ha scritto un titolo: 'Dio non è abruzzese'. Si vede che lui non è abruzzese, non partecipa al dolore della gente e lancia frasi per fare colpo sulle persone provate. Dio è abruzzese perché in questo momento è in Croce e partecipa al nostro dolore con il suo. Dal tragico evento di Rigopiano cambieranno i miei occhi: prometto di piangere con chi piange e di ridere con chi ride; prometto di non essere 'cinico' e di non abituarmi al dolore degli altri; prometto che il dolore degli altri può cambiare parte di me e poi parte di chi incontrerò. Rialzaci, Signore, dalla morte e facci essere ancor di più innamorati della vita, ridonandoci la forza e la voglia di pregare e di amare sempre”.

L'uomo dell'Abruzzo

La mia regione è stata segnata nella storia da tanti terremoti e prove, ma la gente è “forte e gentile” ed ha capacità di rialzarsi e rinascere, come la fenice, dalle ceneri più nere. Il nostro scrittore Ignazio Silone dipinge in maniera perfetta la nostra gente: “II destino degli uomini nella regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne… Il fattore costante della loro esistenza è appunto il più primitivo e stabile degli elementi, la natura… Le montagne sono dunque i personaggi più prepotenti della vita abruzzese e la loro particolare conformazione spiega anche il paradosso maggiore della regione che consiste in questo: l’Abruzzo, situato nell’Italia centrale, appartiene in realtà all’Italia meridionale… E questo perché la storia, che quel carattere ha formato, è stata spesso assai dura, oscura e penosa, in un ambiente naturale quanto mai aspro, tra i più tormentati dal clima, dalle alluvioni, dai terremoti. Il carattere peculiare dell’uomo abruzzese non tralignato è dunque un’estrema resistenza al dolore, alla delusione, alla disgrazia; una grande e timorosa fedeltà; un'umile accettazione della “croce” come elemento indissociabile della condizione umana”. Concludo con un canto popolare e la sua traduzione che ci fa comprendere la bellezza dell'Abruzzo: terra di santi e di briganti, terra di eremi, di montagne bellissime e mare azzurro come il cielo.

J'Abbruzze

So' sajitu aju Gran Sassu,          (Son salito sul Gran Sasso,)
so' remastu ammutulitu,             (son rimasto ammutolito,) 
me parea che passu, passu       (mi pareva che passo passo)
se sajesse a j'infinitu.                (si salisse all'infinito.)

Che turchinu, quante mare,       (Che turchino, quanto mare,)
che silenzie, che bellezze,         (che silenzio, che bellezza,)
pure Roma e j'atru mare            (pure Roma e l'altro mare)
se vedea da quell'ardezza.         (si vedevan da quell'altezza.)

Po' so' jitu alla Majella,               (Poi sono andato sulla Maiella,) 
la muntagne è tutta 'n fiore,        (la montagna è tutta in fiore,)
quant'è belle, quant'è belle,        (quant'è bella, quant'è bella)
pare fatta pe' l'amore.                (pare fatta per l'amore.)

Quantu sole, quanta pace,         (Quanto sole, quanta pace)
che malia la ciaramella,             (che malia la ciaramella,)
ju pastore veja e tace                (il pastore veglia e tace)
pare ju Ddiu della Majella.          (pare il Dio della Maiella.)