Ogni vita ha un nome e un cognome: non esiste una tutela astratta della vita

E’ datata 19 dicembre 1978 la lettera che Sua Eccellenza Mons. Luigi Maverna, allora Segretario generale della Cei, scrisse a tutti i Vescovi italiani, comunicando che era stata istituita la Giornata per la Vita con lo scopo di “educare all’accoglienza della vita e di combattere l’aborto e ogni forma di violenza esistente nella società contemporanea”. Il 22 maggio dello stesso anno era stata infatti approvata dal Parlamento italiano la legge sull’interruzione della gravidanza.

Ogni vita ha un nome e un cognome, non esiste una tutela astratta della vita. è importante ricordarlo altrimenti si crea subito un equivoco di fondo il cui emblema è l’anglicismo “pro life”. Non esiste sulla faccia della terra essere umano che sia radicalmente “contro” la vita, sarebbe come pensare di annientare il mondo intero compresi se stessi. Le vere divisioni nascono, invece, quando si “valutano” diversamente gli esseri umani a causa delle loro condizioni di esistenza. E, ripeto, quegli esseri umani hanno sempre un nome. Il feto nel grembo di una donna, il malato terminale, la persona lungodegente sono esseri umani con una identità, magari piccola e apparentemente irrilevante, ma degni come tutti gli altri esseri umani che popolano la terra. Tutelare la vita in ogni sua stagione significa dare lo stesso valore a ogni persona a prescindere dalle sue condizioni personali, a cominciare da quando non può addirittura difendere se stessa. Si capisce bene allora perché Santa Teresa di Calcutta ricordava al mondo intero che l’aborto fosse la più grande minaccia per la pace: non rispettare la vita umana proprio quando è fragile, significa aprire le porte ad una cultura pronta a retrocederla anche in altre circostanze.

Il messaggio della Cei per questa giornata dal tema “Libertà e vita” centra il cuore del dibattito odierno: cosa significa davvero essere liberi? Nella visione sedimentata dell’attuale cultura secolarizzata, essere liberi significa fare tutto ciò che si ritiene giusto fare senza toccare la libertà altrui. L’archetipo è quello della cosiddetta “autodeterminazione”, che può giungere fino a porre fine alla propria esistenza (eutanasia) o, in ragione della propria salute anche psichica, porre fine ad un’esistenza altrui (aborto). Il messaggio della Cei spiega piuttosto che la libertà non è il fine, ma lo ‘strumento’ per raggiungere il bene proprio e degli altri, un bene strettamente interconnesso”. Ora il tema cruciale è il seguente: questo Messaggio può avere un senso anche per il non credente? La risposta, ovviamente, va lasciata a costoro, ma ritengo che ci siano spunti interessanti per una riflessione laica sulla radice più autentica della solidarietà, che riempie di senso la comune appartenenza di ogni persona al consorzio umano.

L’idea legislativa che sta intaccando alcuni pilastri giuridici plurimillenari – dal diritto di famiglia alla tutela, appunto, della vita – sta nell’assioma che il nostro ordinamento debba sempre ritenere “assoluta” la volontà dei consociati, salvo che questa non si scontri con altre libertà, e che giammai possa ritenersi prevalente un interesse generale in contrasto con tale volontà. Ma non è così. Un esempio meno pregno di conflittualità è chiarificatore: anche se un dipendente volesse lavorare ventiquattro ore al giorno ciò non è consentito dall’ordinamento in quanto va contro la dignità e l’integrità fisica della persona. Per non parlare di quanto sta avvenendo ora, in epoca di pandemia, con interessi individuali che retrocedono davanti alla necessaria salvaguardia del valore indefettibile della salute dei più fragili. E’ quanto Giorgio La Pira ha scritto nell’articolo 2 della nostra Carta costituzionale: la Repubblica “riconosce” i diritti inviolabili della persona; li riconosce, sono dunque intangibili anche per le leggi dello Stato, in quanto ne sono il presupposto, a cominciare dal diritto alla vita.

Professor Alberto Gambino, Ordinario di Diritto Privato, University of Rome Europea, Lawyer, Partner Studio Legale Gambino