Venezuela, il rischio di un “Donbass” in America Latina

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L'America latina ed i suoi, a tratti, drammatici regime change ritornano prepotentemente ad interessare le potenze mondiali e le ambizioni strategiche delle stesse. Il Venezuela costituisce l’ultimo tassello di un complesso quadro che ha visto, negli ultimi anni, molti Paesi della regione cambiare radicalmente orientamento politico-economico, in una girandola che, al momento, si sta rivelando deleterea per i destini di molti Paesi ancora intrappolati in una complessa transizione post-colonialista. La stabilizzazione della Colombia, i controversi esperimenti socialisti in Bolivia e Venezuela, la crisi dell’economia argentina ed uruguaiana, nonché il grave problema della corruzione in Brasile hanno contribuito a far cadere il paradigma “sovranista” latino-americano, con un ritorno preponderante delle ambizioni di Washington, decisa a ritornare potenza “emisferica” e a difendere i propri interessi strategici nel proprio “cortile di casa”.

In uno scenario sempre soggetto a continui mutamenti vanno inquadrati i recenti fatti venezuelani, con gli Stati Uniti decisi nel tentativo rovesciare Maduro e porre fine ad un esperimento socio-economico che i vertici della politica statunitense hanno sempre guardato di cattivo occhio per due buoni motivi: la posizione geo-strategica del Venezuela, sull’arco composto dal golfo del Messico (il controllo totale del quale risulta essere decisivo per il perpetrarsi dell’egemonia continentale statunitense), nonché i livelli di estrazione petrolifera che fanno di Caracas una delle principali forze esportatrici a livello mondiale. L’avanzare di Russia e Cina nel settore dell’estrazione e della raffinazione (coincidenti con le affinità ideologiche confermate in questi giorni tumultuosi tra il Venezuela ed i principali avversari degli Stati Uniti) già da anni preoccupa Washington. Lo scenario venezuelano, oltre ad evidenziare l’estrema fragilità di Caracas e a mettere a nudo un sistema collassato economicamente, mette in rilievo le difficoltà con le quali gli statunitensi continuano ad interfacciarsi agli scenari multipolari.

L’appoggio subitaneo ed incondizionato al leader della resistenza Juan Guaidò (autoproclamatosi presidente della Repubblica venezuelana), il congelamento delle riserve auree di Caracas nelle banche britanniche, nonché le successive dichiarazioni di John Bolton nel merito tradiscono una febbrile fretta: per quanto concerne il Venezuela, tutte le ipotesi sono sul tavolo, compreso quella militare, alludendo a cinquemila soldati americani già presenti in Colombia, con annesso l’imbarazzo di Bogotà, a quanto pare, disinformata della cosa. Washington si è mostrata, come nello scenario ucraino, risoluta nell’appoggiare il tentato golpe ai danni del socialismo di Maduro, così come la maggioranza dei Paesi latino-americani del Gruppo di Lima, i quali non hanno mai riconosciuto la validità delle elezioni del maggio 2018, con le quali Maduro è stato riconfermato. Il Brasile di Bolsonaro, la Colombia, il Canada, il Cile e l’Argentina hanno subito riconosciuto Guaidò come Presidente, intimando Maduro di indire nuove elezioni politiche, al contrario di Bolivia, Cuba e Nicaragua, solidali con il socialismo chavista. Russia, Cina e Turchia si sono esposte in favore di Maduro per ragioni riguardanti il proprio ruolo di creditori nei confronti del Venezuela. Il circuito mediatico internazionale, invece, ha immediatamente contribuito a polarizzare il discorso lungo gli stucchevoli assi tradizionali, ossia i fautori occidentali della democrazia di marca occidentale contro Paesi illiberali asiatici pro-Maduro.

Il discorso, ovviamente, è ben lungi dall’essere semplificato in questa maniera, sebbene il socialismo di marca chavista può dirsi un esperimento fallito dal momento dell’abbassamento del prezzo delle materie prime, unico introito che ha consentito fino a qualche anno fa al Paese di redistribuire la ricchezza senza però preoccuparsi di diversificare l’economia e creare mobilità sociale: troppi i generali (con relativi privilegi, circa 2 mila su 30 milioni di abitanti) per le dimensioni del Paese, insostenibile il sistema assistenzialista messo in piedi da Chavez sotto i 60 dollari a barile. Se ci è onestamente difficile pensare che gli Stati Uniti stiano effettivamente intervenendo per salvare, sempre nel nome della famigerata democrazia, la popolazione locale dalla criminalità e dall’inedia (supermercati vuoti, scarsezza di beni di prima necessità nonché già una quarantina di morti negli scontri di piazza), è bene ricordare che, poche settimane prima dell’autoproclamazione di Guaidò, insistenti voci avevano paventato degli accordi militari importanti tra Caracas e Mosca, paventando un eventuale e scongiurabile dispiegamento di sistemi missilistici russi nel Mar dei Caraibi, possibile in seguito allo scioglimento del trattato Inf. Se Guaidò non può dirsi ancora al potere, è molto probabile che, una volta partito il processo di detronizzazione di Maduro, altre indecisioni della comunità internazionale potrebbero portare il Venezuela ad una stremante guerra civile, in un contesto dove l’esercito potrebbe facilmente spaccarsi in due. Ci troveremmo, in tal caso, di fronte ad un nuovo “Donbass” in America Latina, per la felicità di chi oggi gioca a destabilizzare i punti di “faglia” del Pianeta. Del resto, proprio a tal proposito, ancora non è noto il contenuto di un aereo Gulfstream G550 partito il 24 di gennaio dalla Turchia per fare scalo a Mosca e poi ripartire alla volta di Caracas…