Un medico è per la vita, mai per la morte

Le motivazioni della sentenza 242/19 della Corte costituzionale sul “suicidio assistito” permettono di meglio chiarire alcuni punti già preannunciati con il comunicato stampa di un mese fa circa. Innanzitutto si conferma che la decisione presa è in continuità perfettamente coerente con quanto il legislatore aveva stabilito con la legge 219/17 sul consenso informato e Dat. I giudici costituzionali parlano esplicitamente di “riempimento costituzionalmente necessario“, di un vuoto legislativo che quella legge aveva omesso di affrontare. In effetti, se si può interrompere un trattamento di sostegno vitale quando il paziente non è cosciente sulla base di Dat espresse e depositate, come legge 219 prevede, perché non si dovrebbe interrompere il medesimo trattamento quando il paziente è cosciente, lo richiede e non è in grado di realizzarlo autonomamente? Si introdurrebbe una fattispecie “discriminatoria”, in contrasto con il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Non posso non rimarcare – anche se si tratta di ben misera consolazione – che per anni durante il dibattito cultural-politico che ha preceduto la votazione in aula della legge 219, abbiamo argomentato e dimostrato in tutte le sedi competenti che quel testo era “sostanzialmente eutanasico” e spalancava le porte ad un pendio scivoloso che avrebbe portato alla legalizzazione della “morte medicalmente provocata”.

E' vero che questa sentenza non è una dichiarazione di legittimità costituzionale del suicidio, che resta comunque un'azione riprovevole, ma l'affermazione che l'articolo 580 c.p. non è sempre e a prescindere incompatibile con la nostra Costituzione, è certamente un passo avanti sulla strada della cultura della morte, che considera il “bene vita” un bene disponibile alla stregua di un qualunque bene materiale. La Corte, oltre a definire la sua preoccupazione per la tutela delle persone “fragili”, detta le condizioni cliniche che legittimano la richiesta di suicidio assistito, precisando che vi è però la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore. In buona sostanza, prima di aderire alla sua richiesta di suicidio, il paziente deve essere adeguatamente trattato applicando la legge 38/2010 e riguardante la medicina palliativa e la sedazione del dolore. Un'imposizione certamente positiva, utile ma che fa sorgere un altro interrogativo di non facile soluzione: e quelle strutture pubbliche che ne sono sprovviste?

La sentenza impone la sua applicazione immediata, ma un presidio clinico di medicina palliativa non si costruisce in 24 ore. L'aver tolto di mezzo qualsiasi rischio di “scopo di lucro” da parte di agenzie/associazioni private dedite al suicidio assistito avendo assegnato l'esclusiva competenza alla struttura sanitaria pubblica è certamente opera saggia e meritoria. Ma, proprio in conseguenza di ciò, diventa ancora più cogente il tema di adeguare queste strutture con servizi/reparti di medicina palliativa. Infine, è doveroso rimarcare un aspetto delicatissimo che riguarda la professione medica. La medicina che tutti conosciamo e sulla quale noi medici ci siamo formati e abbiamo studiato si definisce “ippocratica”, riferendosi a quel giuramento che data tre secoli prima di Cristo. Uno dei cardini di quel testo è che il medico è per la vita e mai per la morte. La medicina moderna ha fondato la sua essenza stilando un “codice di deontologia medica” (rinnovato nel 2014) in cui la relazione di cura medico-paziente viene definita come “alleanza” fra un bisogno (quello del malato) e una sapienza (quella del medico), allo scopo di ridare la salute, sconfiggere la malattia, lenire il dolore. In ultima istanza, di combattere contro la morte. Ora si delinea una deontologia tra “rifondata”: il medico, come agente di morte, che alla legge 219 “è tenuto a rispettare la volontà espresse… E in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale”, mentre nella sentenza 242/19 “resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”. Quest'ultima affermazione ha il carattere di un'attenuazione del disposto di legge, ma il nodo della questione è un altro e richiede un ribaltamento assoluto dei termini: per coscienza e ontologia professionale, il medico – ogni medico, qualunque medico – non può dare la morte anche se richiesto, ed eventualmente l'obiezione ha il valore esattamente opposto, quello di venire meno al dovere professionale e chiedere di agire in modo esattamente contrario. Una provocazione: si stili un elenco di medici che facciano obiezione al dettato deontologico e si dichiarino disposti a provocare la morte del paziente che loro si affidano. Anche questo fa parte del diritto del paziente a un'informazione chiara e circostanziata.