Un Def che non fa rima con crescita

Il Def presentato dal governo mostra diversi spunti importanti per giudicare, senza paraocchi ideologici, quello che è stato fatto in questi mesi. Qual è il bilancio, dunque, dell'operato di questa maggioranza?

Fondamentalmente, a voler essere buoni, un nulla di fatto. A livello economico e di sistema, le riforme annunciate e che stanno prendendo il via non avranno alcun impatto sulla crescita che si avvia ad essere, ancora una volta, asfittica dopo una lieve ripresa negli scorsi anni, ma si ripercuoteranno sul livello del debito pubblico il quale era in continua crescita prima e lo resta tutt’oggi.

Valutando, infatti, i due provvedimenti bandiera di questo esecutivo, reddito di cittadinanza e quota 100 a superamento della “riforma Fornero” in ambito previdenziale, questi avranno un impatto pressoché nullo sulla crescita; il primo potrebbe (da notare il dubitativo) far crescere il Pil dello 0,2% quest’anno e dello 0,4% nel 2020 con la previsione indicata di una progressione del prodotto interno lordo dello 0,2% per quest’anno e dello 0,8% nel prossimo triennio; la seconda, a quanto pare, non contribuirà minimamente alla crescita economica del Paese.

Da questi dati emergerebbe che stante una stagnazione tecnica senza la maggior spesa prevista per il reddito di cittadinanza, stante l’identità keynesiana di determinazione del Pil come somma di consumi, spesa governativa, investimenti e saldo della bilancia commerciale, l’unico punto di progressione sarà dato dalla maggiore spesa assistenzialistica che non avrà alcun riflesso su consumi e investimenti, spingendo, invece, il deficit al 2,4% nel il 2019 per ridursi fino all’1,8% nel 2021.

Di contro il rapporto debito/Pil è previsto in crescita al 132,6% per poi iniziare a ridursi dal 2020 e arrivare al 128.9% nel 2022. Dai desiderata dello scorso anno, sorretti da ipotesi fin troppo ottimistiche di crescita, ai dati realistici e, oggettivamente, fallimentari di quest’anno il passo è stato breve e, in un certo senso, annunciato da diverse voci critiche in questi mesi che non hanno creduto all’effetto annuncio, esultante, dell’”abolizione della povertà” del vicepremier Di Maio dalla terrazza romana dopo l’approvazione del Def precedente e che in molti ricordano, oggi, con vari meme sui social.

Interessante, poi, quanto riportato sul comunicato stampa che ha accompagnato la presentazione del documento, secondo cui il Governo “conferma con il Documento gli obiettivi fondamentali della sua azione: ridurre progressivamente il gap di crescita con la media europea e, al contempo, il rapporto debito/Pil. A tal fine, la strategia dell'esecutivo ribadisce il ruolo degli investimenti pubblici come fattore fondamentale di crescita, innovazione, infrastrutturazione sociale e aumento di competitività del sistema produttivo”. E' evidente che se così dovesse essere tutta l’azione dell’ultimo anno dovrebbe essere ribaltata.

Gli investimenti, soprattutto infrastrutturali, sono al palo, bloccati per diverse ragioni anche solo ideologiche (il Tav in primis); il sistema produttivo è ingessato da un fisco rapace e da troppe scadenze che rendono costoso, fosse anche solo in termini di tempo, il pagamento delle imposte: il tutto unito a una burocrazia asfissiante, a cui sembra non si voglia ancora metter mano, e a un mercato del lavoro illiquido e inefficiente nonostante i proclami riguardanti l’inutile “decreto dignità” volto al superamento del Jobs Act.

Si è introdotto, così, in maniera prepotente il discorso fiscale che, ovviamente, diventa centrale in vista di un peggioramento previsto dei conti nazionali. Il contratto di governo prevedeva, su richiesta della Lega che ne aveva fatto un punto fermo del suo programma elettorale, l’adozione della flat tax anche per i privati, visto che sulle aziende l’Ires è già ad aliquota unica da anni e anni, e, coerentemente con una certa visione pauperistica portata avanti dall’alleato, per ora, di maggioranza, si è arrivati a ipotizzare una flat tax progressiva a due aliquote per “non avvantaggiare i ricchi”.

Un attimo… flat tax progressiva? Questo è un ossimoro, benché ogni sistema di flat tax preveda elementi di progressività – dati da un’eventuale no tax area e dal gioco di detrazioni e deduzioni legate al reddito – arrivare alla previsione di due aliquote, che potrebbero benissimo essere di più, altro non è che una mera rimodulazione del regime Irpef attuale e rinominandolo “Paperino” invece che “Pippo”.

In ogni caso anche se si fosse giunti a un regime vero di flat tax, come tra l’altro propose già Forza Italia nel 1994, questa si sarebbe inserita, senza modificarlo sostanzialmente, nel sistema impositivo attuale, quando la vera necessità del Paese non è solo la riduzione del prelievo reddituale ma una riforma strutturale dell’intero impianto fiscale, riducendo non solo il prelievo complessivo ma anche il numero di imposte e balzelli e degli adempimenti obbligatori, cosa di cui non c’è traccia nel Def. Allo stesso modo non è possibile individuare anche solo il progetto di riduzione delle accise sui carburanti che fu una delle promesse iniziali di Matteo Salvini e che, invece, la cosiddetta “Manovra del Popolo” prevede in aumento per il prossimo triennio.

Sempre in tema di fisco, poi, pende ancora la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia sui conti pubblici che porterebbero all’aumento dell’Iva automatico in caso di mancata previsione delle coperture dei capitoli di spesa previsti; il premier, ovviamente, tenta di stemperare i timori dichiarando che questo non avverrà ma, come già si era scritto su queste pagine, nessuno si vuole prendere la responsabilità politica di disinnescare definitivamente questo provvedimento recessivo, reso strutturale dall’allora governo Monti pur se introdotto in modalità temporanea dalla “Manovra di Ferragosto” dell’ultimo esecutivo Berlusconi nel 2011, per sostituirlo con un sistema di tagli lineari della spesa pubblica accessoria (quindi non le prestazioni di welfare, per intenderci) sul modello del fiscal cliff americano, cosa che, però, potrebbe avere grosse ripercussioni a livello elettorale da parte delle forze di governo.

Altri punti previsti sarebbero quello della previsione di un salario minimo orario per i settori privi di contrattazione collettiva, che andrebbe, però, anche a toccare i Ccnl vigenti fissando un limite minimo alle retribuzioni previste e, prospetticamente, costringendone la riapertura di quasi tutti, almeno a livello salariale; ci sono poi la spinta alla digitalizzazione tramite Intelligenza Artificiale, blockchain, banda larga e rete 5G, che dovrebbero, prospetticamente, anche spingere alla riduzione del tasso di disoccupazione che ri assesta ancora ben sopra il 10% della popolazione attiva, riprendendo le suggestioni del defunto Gianroberto Casaleggio ma che si spera non sfocino in soluzioni sulla falsa riga di Rousseau, la piattaforma usata dal M5S per la sua gestione interna che mostra un numero superiore di bachi rispetto a un allevamento per la produzione di seta.

In definitiva si può dire che si sia passati dal libro dei sogni del 2018 alla rappresentazione della dura realtà del 2019, senza però mostrare nessuna vera proposta per uscire dal vicolo cieco in cui sembrerebbe che ci si stia imboccando. Difficilmente questo Def supererà il giudizio dei partner europei e, sicuramente, dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento Ue e l’insediamento della nuova Commissione se ne tornerà a parlare, sempre che l’attuale governo sia ancora in carica.