Un carcere “a misura d'uomo”

Navigando in rete, casualmente, mi sono imbattuta nel “carcere possibile”, un concorso promosso recentemente da alcuni giovani imprenditori edili di una regione italiana diretto a premiare la migliore idea per un “carcere ideale”. Il premio, in alcune migliaia di euro, era stato assegnato ad un gruppo di architetti che avevano progettato un’avveniristica struttura su cinque livelli a forma di cristallo di ghiaccio. Questa struttura, al suo interno, prevedeva ampi spazi ecosostenibili destinati a officine e laboratori che permettevano una collaborazione sinergica con le vicine imprese tessili e tipografiche le quali si sarebbero avvalse del lavoro dei detenuti al fine di promuoverne il recupero e la rieducazione.

Mi sono chiesta, ma se oggi questa idea “utopistica” si fosse concretamente realizzata? Se in qualche luogo ci fosse il “carcere ideale”? Forse avremmo avuto meno suicidi nelle nostre carceri; forse avremmo avuto meno reati consumati nelle nostre carceri; forse non avremmo avuto il 18 settembre del 2018, una bambina di appena quattro mesi morta e il suo piccolo fratellino di soli due anni ridotto in fin di vita, per mano della loro giovane mamma detenuta nel nostro carcere, “Quis Novit?”. Non sapremo mai quali motivi, quali sofferenze e quale esasperazione è culminata nei tragici gesti di questi uomini e donne. Un dato è certo, sappiamo che la condizione carceraria italiana sta vivendo momenti difficili, mai come oggi è necessario concentrare le forze e le competenze per dettare nuove regole, per creare dei modelli dove possano convivere con serenità e tranquillità 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, detenuti e lavoratori del pianeta carcere.

Dopo l’emanazione della Legge Gozzini (1986) e in seguito a un cambiamento radicale del comune pensare a proposito della condizione detentiva in carcere, sempre di più il legislatore sotto la spinta dalle emergenze connesse al cronico sovraffollamento delle carceri e alla difficoltà di realizzarne delle nuove, il più delle volte a causa dell’esiguità degli stanziamenti per l’edilizia carceraria, ha tentato di modificare in meglio la vivibilità e la condizione generale dei detenuti. Si sono susseguite una moltitudine di norme, che, in questi ultimi decenni, in attuazione alle raccomandazioni internazionali, ha concesso ai detenuti non solo la fruizione di pene alternative al carcere (cd. extramoenia), come l’affidamento ai servizi sociali o la concessione degli arresti domiciliari anche con strumenti di controllo a distanza come il cd. braccialetto elettronico, ma ha ampliato soprattutto la possibilità per il detenuto condannato in carcere, di poter accedere al trattamento volontario (con il suo assenso) finalizzato al suo recupero e reintegro nella società, anche attraverso lo studio e il lavoro in carcere e di poter ottenere la tanto ambita semi-libertà. Tutto ciò, ferme restando, naturalmente e in primis, le esigenze di sicurezza e il rispetto dell’Ordinamento penitenziario.

Non basta, prevedere, ideare, progettare e realizzare una costruzione sicura, ovvero un’area protetta da un muro di cinta perimetrale e da un filo spinato, al cui interno vivono i detenuti; bisogna anche fornire tale struttura di tutti i servizi e gli spazi necessari per le finalità relative sia alla detenzione (espiazione della pena) che al trattamento del detenuto/condannato, prevedendo locali e siti idonei alla ricreazione (ora d’aria), allo studio, al lavoro, alla socialità. Il futuro è ripensare ad un carcere a “misura d’uomo” dove l’espiazione della pena non si traduca in una segregazione, in un abbandono del detenuto a se stesso, ma che sia “esigenza necessaria” che accompagni gradualmente al pentimento e alla rieducazione, in piena sintonia con un importante passo biblico che ci ricorda “Ravvedetevi dunque e convertitevi, perché i vostri peccati siano cancellati e affinché vengano dalla presenza del Signore dei tempi di ristoro.” ( Atti degli Apostoli 3:19-20)

Il carcere serve dunque al ravvedimento e alla conversione del detenuto. Di carcere non si può morire e nel carcere non si deve morire. Infatti, secondo una solida letteratura scientifica, si rileva, che l’inserimento continuativo in carcere, può avere ricadute negative sul piano psicofisico dei soggetti sottoposti, che può esprimersi anche in forme patologiche e in genere in un danno alla persona, nella maggior parte dei casi di carattere permanente, quindi, pericoloso anche per la società (il carcere come l’ultima pena corporale). Nel prendere atto di tali risultati negativi, di recente si è andata sviluppando una maggiore sensibilità ed attenzione nel non esasperare le situazioni di rischio (tentativi di suicidio o di autolesionismo) evitando la prassi molto diffusa, delle prolungate chiusure in cella. Da ciò, la tendenza sempre più frequente, da parte di tutti gli operatori giudiziari (dal magistrato al direttore del carcere) a coinvolgere il sevizio sanitario interno al circuito penitenziario in modo che lo stesso possa dare indicazioni adeguate, affinché gli operatori giudiziari e penitenziari abbiano contezza delle situazioni di rischio per i detenuti e quindi si attivino per prevenirle.

Se però da una parte è forte l’esigenza di una gestione ottimale delle nostre carceri e degli “ospiti” detenuti, attraverso spazi e servizi ideali e inalienabili, dall’altra vi sono due punti fissi, però, che bisogna sempre ricordare: la sicurezza e il rispetto dei lavoratori penitenziari. Quindi in un modello ideale di carcere, in un giorno prossimo, potrà non essere più un'utopia ma una realtà costruita su una struttura a cinque livelli a forma di cristallo, dove le giovani mamme e i loro piccoli bambini (esseri che nessuna colpa devono espiare ma che sono costretti a vivere come reclusi e che come reclusi finiscono per morirvi) possano davvero sentirsi “accolti”; una realtà costruita non più ai margini del territorio e della società, ma nell’immediata periferia delle nostre città e, ove possibile, vicina ai tribunali, alle scuole, agli ospedali e alle caserme. Una realtà al centro del nostro vivere quotidiano per non essere più quel lontano e dimenticato pianeta.

Bernadette Nicotra – magistrato del Tribunale penale di Roma