La Silicon Valley Bank è il primo battito d’ali della farfalla?

Foto di Mariia Shalabaieva su Unsplash

Diciamo che il secondo weekend di marzo non sia stato molto tranquillo sui mercati visto che di là dell’oceano si sono visti dei clamorosi fallimenti bancari. Non si è trattato, infatti, di istituti di piccolo cabotaggio ma di alcuni degli dei più celebri sul mercato come la Silvergate Bank, la prima ad “aprire le danze”, la Signature Bank e quella che ha colpito più l’immaginario di tutti, cioè la Silicon Valley Bank.

Mentre Silvergate era una banca fortemente attiva sul fronte delle criptovalute e legata a FTX, che ha rappresentato il più grande crack di un’azienda in area cripto, la Signature si occupava soprattutto di credito fondiario ma la SVB era la banca delle start-up della Silicon Valley, l’istituto che finanziava e forniva i servizi finanziari a tutte le aziende tecnologiche che vedevano la luce nella Bay Area ed è logico che questo crollo abbia provocato più rumore. Ma cosa ha portato una banca, giudicata florida e sicura con rating A3 da parte di Moody’s, al default? Investimenti “tossici”? Spregiudicato uso della finanza derivata? La Guerra in Ucraina (come molti, ingenuamente, indicano nei meme sui social)? No… semplice miopia gestionale, uno scarso risk management e una sfortunata serie di coincidenze.

Per capire meglio la questione partiamo dalle basi nella valutazione del bilancio bancario. Senza andare troppo nel dettaglio gli elementi positivi di reddito per una banca sono principalmente tre: il margine di interesse, cioè quanto si guadagna sui prestiti calcolato sul differenziale (lo spread) tra il tasso finito pagato dalla clientela e il tasso di rifinanziamento presso la banca centrale, le commissioni nette, che direi non abbiano bisogno di spiegazione su cosa siano, e l’eventuale apporto positivo degli investimenti finanziari.

La SVB, per la natura stessa della clientela più propensa a finanziarsi sul mercato piuttosto che direttamente con la banca, non poteva certo spingere sul margine d’interesse, complice anche la vecchia politica monetaria espansiva della FED che aveva portato in negativo i tassi reali, e difficilmente le aziende USA, molto attente nel controllo dei costi, permettono di lucrare sulle commissioni, quindi sfruttando il differenziale tra i rendimenti quasi nulli concessi alla raccolta e quelli di obbligazioni, rappresentate principalmente da Mortage-Backed Security (MBS) cioè titoli strutturati per la cartolarizzazione dei mutui erogati da altri istituti, e dai titoli di stato, i T-bond, aveva impiegato buona parte dei copiosi depositi in titoli che potessero dare una buona resa, pressocché sicura, e portare risultati operativi importanti in bilancio, tanto da arrivare ad avere oltre il 55% degli attivi investiti in titoli a medio-lungo termine.

Geniale, qualcuno potrebbe dire, e, sì, lo sarebbe stato se l’inflazione, spinta dalla ripresa post pandemica, non avesse iniziato a crescere velocemente, spingendo la FED a cambiare drasticamente rotta iniziando una politica restrittiva volta alla stabilizzazione dei prezzi. Non serve un genio per capire che, alzando i tassi d’interesse, un titolo obbligazionario emesso in precedenza a tassi più contenuti perda di valore poiché i nuovi bond emessi in seguito, con cedole più elevate, saranno estremamente più appetibili e questo è quanto è successo. In un periodo tranquillo, questo avrebbe solo creato qualche fastidio di bilancio, dovendo andare a coprire le minusvalenze teoriche, generate dal calo del prezzo di mercato dei titoli, con delle riserve ad hoc a garanzia del patrimonio e andando, poi, a chiudere le partite a scadenza quando il Tesoro rimborserà le obbligazioni al valore nominale; i guai nascono qualora si debba liquidare le posizioni per ragioni di cassa e le perdite presunte divengono, quindi, delle perdite certe.

Se a questo si aggiungono le NPE che si andavano a formare con la crisi delle Big Tech odierna, che si sta inesorabilmente espandendo anche tra le newco, e la differenziazione del portafoglio di investimento, prima regola per minimizzare i rischi, scarsa ecco profilarsi una tempesta perfetta che, però, a differenza del crollo di Lehmann Brothers, nel 2008, non dipende da rischiosi investimenti a leva ma di una crisi bancaria “tradizionale” e, per questo, quasi stupefacente e ad alto rischio di contagio. Se un’istituzione, come era vista la SVB, può cadere perché altre banche dovrebbero essere più sicure?

Questo è il dubbio che potrebbe attanagliare chiunque, in fondo la maggior parte degli istituti di credito ha investito in titoli di stato, considerati sicuri, per stabilizzare gli attivi e ottenere una certa remunerazione del capitale in questi anni di tassi schiantati e la politica di tapering e rialzo dei tassi della FED la sta seguendo, seppur più gradualmente, anche la BCE (nonostante le serie differenze fra i fenomeni inflazionistici su dollaro e euro come si illustrerà più avanti), quindi perché il sistema bancario europeo dovrebbe essere più sicuro?

Si arriva così a lunedì 13 marzo, un vero e proprio “lunedì nero” per il comparto finanziario delle borse e che hanno visto Milano con la “maglia nera” per i ribassi dell’indice, cosa assolutamente prevedibile poiché se Wall Street ha la sua capitalizzazione sbilanciata sui GAFAM così Piazza Affari la ha su banche e assicurazioni ed ecco spiegato lo scivolone più accentuato rispetto alle altre piazze. Ora la domanda che ci si potrebbe fare è se tutto questo possa innescare un “butterfly effect”, il famoso effetto farfalla secondo cui il battito d’ali di una farfalla possa causare un uragano dall’altra parte del mondo, e colpire anche l’Europa. La perplessità è legittima, in quanto anche le banche del Vecchio Continente hanno i portafogli pieni di titoli di stato, e da qui la fuga dagli investimenti che ha portato a una caduta dei prezzi azionari su tutti i listini il passo è breve ma, in linea teorica, non dovrebbero registrarsi grossi problemi in Eurolandia.

Le regole bancarie europee sono, infatti, molto più ferree di quelle americane e sono state riviste, in un’ottica di stabilizzazione patrimoniale degli istituti, a seguito della crisi che ha colpito il settore alla fine degli anni 10, anche “bombe ad orologeria” come era considerata Deutsche Bank, per via della mole di derivati in portafoglio, nel corso degli ultimi anni hanno portato avanti una politica seria di derisking per evitare situazioni pericolose come quella che portò Lehmann Brothers in fallimento e, quindi, non dovrebbero esserci serie ripercussioni sul mercato creditizio europeo (e spero di non essere smentito dai fatti).

Il vero problema che si profila all’orizzonte è dato dalle politiche di contrasto all’inflazione che in Europa ha origine esogena e non monetaria, derivando da un apprezzamento delle materie prime e delle fonti energetiche sul mercato per cui le azioni delà BCE potrebbero rivelarsi inutili in tal senso.

Il rialzo continuo dei tassi, come già detto, potrebbe sì portare a una svalutazione degli attivi investiti in bond sovrani ma il rischio maggiore potrebbe essere rappresentato da una possibile recrudescenza degli NPE, dovuta al deterioramento delle posizioni creditizie in essere a seguito del rialzo dei tassi. Questa è una situazione comune, da entrambi o lati dell’oceano, poiché, statisticamente, ogni azione di politica monetaria restrittiva della FED ha provocato una crisi finanziaria o una recessione come si è visto anche solo negli ultimi anni con la crisi della New Economy a inizio secolo e la crisi dei sub-prime nel 2007 che ha sempre avuto dei pesanti contraccolpi sul sistema bancario.

Nonostante queste evidenze, però, il Nasdaq e il Dow Jones hanno ripreso a crescere e, sicuramente, non sono state le parole di Biden a spingere il ritorno agli acquisti ma le aspettative degli operatori che si aspettano una marcia indietro da parte della FED con un allentamento sui tassi e una nuova espansione monetaria per evitare che la situazione degeneri, poiché altre banche statunitensi stanno mostrando delle serie difficoltà.

E l’Europa? Mentre scrivo sembra in controtendenza, cosa che prova quanto la fiducia degli investitori nella capacità di reazione della BCE sia tutt’altro che elevata, anche per via della gestione ideologica e scollata dalla realtà dello shock inflazionistico di questi mesi.

Certamente Christine Lagarde non ha la statura e la credibilità di Mario Draghi, come banchiere, e difficilmente avremo un nuovo “whatever it takes”, anche perché, si spera, la contingenza non dovrebbe renderlo necessario, ma, forse, sarebbe il caso che una nuova ventata di pragmatismo entri nelle sale a Francoforte e che la politica monetaria non sia gestita ad annunci “per testare le reazioni del mercato” prima di attuare ogni tipo di decisione.

La stabilità del sistema bancario, infatti, è centrale nella tenuta di ogni economia e contrastare l’inflazione generando delle possibili criticità sugli attivi e sulle politiche del credito, cosa che potrebbe spingere una vera recessione, non è certo una buona idea.