La sfida di essere umani

Per conoscere la natura dell’essere umano è necessario partire dal suo ombelico. Una cicatrice che l’uomo si ritrova al centro geometrico del suo corpo come dote per iniziare l’avventura della vita e come patrimonio per ricordare le sue origini. Da quel peduncolo passa inevitabilmente la conoscenza della persona e della sua identità più profonda. Quella cicatrice che fa da baricentro del nostro equilibrio ci apre orizzonti più chiari sulla vita umana e ci permette di intercettare la vocazione prima e ultima di ogni persona. Negare l’ombelico è come tradire l’uomo e il suo significato.

Nessuno nasce senza un altro, nessuno si è fatto da solo. Le pompose affermazioni di illustri luminari del nulla, avvezzi al politicamente corretto e che esordiscono: “Io mi sono fatto da solo!” sono un’aberrazione della natura umana. L’ancestrale pretesa di disarcionarsi dai legami profondi e di poter fare a meno degli altri fa sprofondare l’uomo nell’inutilità della sua esistenza. Penosamente, e spesso a proprie spese, ci si rende conto che non siamo stati programmati per essere autosufficienti.

L’autosufficienza è il baratro dell’esistenza umana. L’ombelico, piuttosto, racconta la profonda ed innata natura relazionale della persona. Certifica la dipendenza dall’altro come condizione esistenziale dell’uomo. Ed ancora sigilla la fragilità a cui si espone, perché confida nella cura altrui. L’uomo, senza la custodia dell’altro, deperisce come carcassa nel deserto.

L’essere relazione è l’identità che va ad innervare tutto il nostro esistere. La dipendenza dall’altro è inscritta nel codice genetico della persona fin dai primi giorni di vita. Così pure della fragilità, che struttura lo scheletro esistenziale di ognuno di noi: non ne possiamo fare a meno. “La persona esiste solo verso l’altro”, scriveva il filoso francese Mounier agli inizi del ‘900. Un essere umano non può trovare la propria pienezza “se non attraverso un dono sincero di sé” (Papa Francesco).

Gli uomini saranno veramente umani solo se sapranno prendersi cura gli uni degli altri, anche se fossero malati inguaribili, disabili, embrioni o vite allo stadio terminale. Il prendersi cura è verbo primordiale dell’uomo, sta nelle sue viscere, è il suo primo alfabeto. Saremo umani quando finalmente avremo imparato ad abitare le nostre fragilità, accogliendole come essenza di noi stessi, impronta del nostro esistere, irradiazione della nostra più autentica identità. L’uomo nasce con il mandato di riconoscere come meraviglia la propria vita imperfetta. Desistiamo dalla ricerca inutile e affannosa della perfezione. L’uomo faccia pace con le proprie debolezze.

La persona dimentica il suo ombelico ogniqualvolta si ostini a cercare una vita perfetta o affermi la sua autosufficienza per autodeterminare tutto il proprio esistere. Un grande inganno si nasconde dietro l’illusione di essere “liberi fino alla fine” al punto di uccidere la vita umana, propria o di altri, nel momento in cui si riceva una prognosi infausta e la diagnosi di un male incurabile!

Il delirio dell’eutanasia e dell’aborto rischia di convincere anche molti cattolici, persuasi dalla paura della sofferenza. Lo spauracchio del dolore, l’utopia di una sregolata libertà di “fare quello che voglio” sono la leva utilizzata per raccogliere adesioni alla cultura dello scarto, assecondando le politiche eutanasiche e abortiste.

La fragilità non è una condanna, la dipendenza dalla cura dell’altro non è il bollo che sancisce l’inutilità definitiva della nostra vita, ma è segno di altissima carità umana, prima che cristiana. Dalla relazione con l’altro passa la nostra salvezza, che vuol dire la nostra felicità.

La giornata nazionale della vita che oggi celebriamo non è una patinata rappresentazione di buoni propositi, con ingresso esclusivo riservato a cattolici fanatici e invasati. È la giornata dei valori comuni all’intera umanità. La comunità umana è solidale per natura, altrimenti non è una comunità. Saremo umanità solo quando avremo imparato a prenderci cura gli uni degli altri.

Luca Russo, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII