Senza lavoro non c’è libertà

Celebrare ogni anno il 25 aprile significa ricordare un patrimonio di idee, di valori, di passione civile che non bisogna disperdere, ma che, anzi, occorre continuare a trasmettere ai giovani, nelle scuole, nel mondo del lavoro ed in tutti gli ambiti della nostra società. In questo tempo in cui stiamo vivendo la “terza guerra mondiale a pezzi“, di cui parla con insistenza Papa Francesco, l’unica via sarebbe proprio una “Resurrezione ” collettiva per alimentare il desiderio universale della pace.

Non possiamo arrenderci, come giustamente ammonisce il Pontefice. Anche per questo saremo nelle piazze il 25 aprile ancora una volta insieme all’Associazione nazionale dei partigiani per sottolineare il nostro “no” convinto a tutte le guerre, all’uso delle armi e della violenza, per ribadire la nostra contrarietà a quanti oggi cercano di minare il disegno di un’Europa unita nei valori dell’accoglienza e dell’integrazione pacifica.

Non bisogna mai dimenticare che la nostra democrazia è frutto delle lotte partigiane e del sacrificio di una generazione che si è battuta per la difesa della libertà, della tolleranza, dell’unità del nostro Paese. Sono i principi fondamentali che insieme al diritto al lavoro ed alla valorizzazione della persona umana, ritroviamo nella Costituzione e su cui si fonda la nostra Repubblica. Da lì bisogna ripartire.

Senza lavoro non c’è sviluppo, progresso, libertà. Il lavoro è quello che rende davvero la persona completa, le permette di esprimersi, di contribuire al bene comune, di sentirsi importante per tutta la comunità e per tutta la società. Lo abbiamo detto con chiarezza alcune settimane fa incontrando a Roma i vertici istituzionali dell’Unione Europea: bisogna cambiare le politiche di rigore che hanno fatto aumentare il numero dei senza lavoro, le diseguaglianze sociali e l’area della povertà.

Tanti cittadini, tante organizzazioni della società civile, tanti giovani credono ancora nel sogno europeo. Ma occorre un colpo d’ala dei governi capace di riaprire l’orizzonte dell’integrazione politica, economica e fiscale, prima che sia troppo tardi. Era questa l’Europa che sognavano i nostri “Padri Costituenti”.

Per questo bisognerebbe subito creare un Ministero del Tesoro europeo che risponda al Parlamento; passare dal Fiscal Compact all’Investment Compact; avviare una politica di sicurezza, di difesa europea e di accoglienza dei profughi; costruire un Fondo europeo integrativo dei sussidi di disoccupazione nazionali quando il tasso di disoccupazione di un Paese membro supera la media del tasso di disoccupazione europeo; dare vita ad un Fondo europeo di sostegno all’occupazione giovanile.

Per creare un mondo di pace ed un’Europa unita dei popoli, il lavoro deve tornare al centro delle scelte dei Paesi europei. Fu così negli anni della Liberazione e della ricostruzione dopo la guerra. E’ di quella lezione che bisogna fare tesoro. Ma per costruire questa nuova Europa del lavoro di cui abbiamo bisogno è indispensabile un “patto sociale” ed una maggiore coesione sociale. Appare una illusione pensare che le riforme si possano fare saltando la mediazione dei grandi soggetti collettivi. Lo diciamo a chi oggi continua nel nostro paese a propugnare la “disintermediazione”, a chi vuole mettere in discussione il ruolo di sintesi tra gli interessi portato avanti dal sindacato confederale.

Anche i Governi più forti ed autorevoli hanno bisogno di favorire la massima condivisione sulle scelte per rendere davvero efficaci le riforme. Il ruolo del sindacato e dei corpi intermedi è fondamentale in una società frammentata, dove ci sono tante diseguaglianze, tante persone deboli e sole che non hanno voce, rappresentanza, titolo per esprimere la voglia di cambiamento e di progresso. Le condizioni di vita delle persone possono cambiare solo attraverso la via della rappresentanza e della responsabilità, con un cammino collettivo di partecipazione, rinascita e di speranza, come avvenne con la Liberazione settant’anni fa. Altrimenti rischia di avere la meglio il populismo, l’antagonismo sterile, una concezione in cui prevale solo la logica del più forte sui deboli.