Sciascia, don Sturzo e la mafia

Si chiederà il lettore quale sia il filo rosso di questo articolo. Per comprenderlo occorre aver visto il film “L’ora legale”, aver letto l’articolo di Sciascia “I professionisti dell’antimafia” e il testo teatrale di don Sturzo “La mafia”. Chi ha visto il film dei noti comici siciliani Ficarra e Picone, oltre che diverse risate, probabilmente avrà colto l’immoralità della comunità di Pietragrande mal preparata a vivere il cambiamento etico verso il bene comune imposto in forza di ordinanze dal sindaco sceriffo. Il ritorno di questi cittadini, dopo l’euforia del nuovo, alle connivenze del passato appare legato al vantaggio individualista dei favori delle clientele.

Il male è rappresentato dal carabiniere corrotto (lo Stato), dall’attivismo dello spione al servizio di lobby (segrete) e dal mafioso che (richiamo al Giorno della civetta) assiste sornione agli eventi. Il bene è incarnato dall’anziano che ammonisce il candidato sindaco sui limiti della politica nel gestione del potere e, poi, sulla necessità che i singoli e la comunità accettino il sacrificio dell’interesse privato rispetto alla perdita di qualche privilegio per il bene comune. A pagare saranno sia il Sindaco sceriffo (la legalità) che il l’anziano saggio (la coscienza), abbandonati dalla comunità che preferisce il ritorno del passato nella cieca connivenza con istituzioni corrotte, sistemi deviati e mafia. Manca nel film il lieto fine, anzi gli autori tratteggiano il dramma di una società civile che priva di una visione condivisa e di un progetto comune, preferisce dividersi su tutto, lamentandosi, per poi tentare di portare a casa le briciole dei propri diritti, lasciate cadere dal tavolo dei forti, rieleggendo il vecchio sindaco dei favori clientelari. Un storia che, in qualche modo, ricorda il testo teatrale “La mafia” scritto da don Sturzo.

Anche qui il candidato sindaco, persona perbene, è abbandonato dai suoi amici di partito e si trova a confrontarsi con la corruzione delle istituzioni, le lobby di potere e la mafia. È lo stesso Sciascia che richiama in questo scritto di don Sturzo la contrapposizione tra il dramma il mancato lieto fine, con queste parole tratte dal suo articolo “I professionisti dell’antimafia”, di cui ricorrono in questo mese i trent’anni: “Ed è esemplare la vicenda del dramma “La mafia” di Luigi Sturzo. Scritto nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abbozzi di Sturzo per il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la pièce era stata dal suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto esser per Fabbri avvertimento a non concluderla col trionfo del bene): andava a finire male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e penoso da cimentarsi a darne un “esempio” (parola cara a san Bernardino) sulla scena del suo teatrino.

E come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo”. Orbene, di tempo ne è trascorso, ma il fenomeno della corruzione, dei lobbismi segreti e delle mafie “nelle sue articolazioni, implicazioni e complicità”, resta un problema che certamente ha superato la “linea della palma” (Sciasca) e strisciante passeggia nei corridoi di Montecitorio (don Sturzo), ma che la globalizzazione e il fallimento dell’Europa dei popoli sembra aver spinto oltre le Alpi. L’ottimismo impenitente (don Sturzo) ci impone di reagire, cercando una risposta nella costruzione di un percorso che non divida ma unisca il popolo, i cittadini, nella presa di coscienza che la produzione del bene comune e del benessere dei singoli, passa attraverso una comune visione del futuro e in un progetto per realizzarlo, oltre che nella selezione democratica delle persone (competenti, capaci e oneste) in grado di portare questo pesante fardello. Da questo punto vista chi, storicamente, si richiama all’impegno del laicato cattolico in politica dovrebbe, prima di tutto, sanare molte ferite, non solo quelle denunciate da Sciascia sul declino morale della Dc.

Il tema, credo, debba essere rappresentato dal male che abbiamo fatto ogniqualvolta ci siamo divisi, ad esempio, tra sturziani e la piriani, tra seguaci di De Gasperi e dossettiani, finendo per perdere di vista ciò che questi santi uomini avevano ben chiaro. O meglio, il dato comune da cui partivano, cioè la fede cristiana; e dove volevano giungere: ovvero che il loro impegno politico era volto al fine di sollevare i poveri verso il benessere e fornire ai ricchi una coscienza sociale. Le ricette fornite erano certamente diverse, spesso contrastanti, ma relative, sperimentali, come qualsiasi cosa umana. Il nostro errore, forse anche indotto da interessi estranei, è stato quello di confondere il dato relativo della ricetta che cammina tra i due punti della retta, con quello essenziale dell’inizio e della fine della stessa.

Oggi la risposta dei cittadini a difesa della Carta Costituzionale apre un nuovo spazio per la sua completa attuazione. I cattolici che ne sono stati, storicamente, parte essenziale nella sua redazione e approvazione, punto di inizio della retta, hanno una nuova occasione per giungere verso il punto finale del bene comune. L’attraversamento del lungo percorso passa dalla presa di coscienza della unità di un popolo in cammino (la visione comune del futuro), capace di saper rafforzarsi nelle differenze (il progetto politico). Probabilmente così le persone e la comunità, partecipi dei propri doveri verso il prossimo, potranno prendere parte a condivisi processi di riforma, senza lamentarne l’estraneità o l’imposizione. Speriamo che chi ha i talenti non li nasconda, ancora una volta lasciandoci vivere nel “dramma”, ma li metta a disposizione per cambiare in lieto fine la storia.

Gaspare Sturzo, magistrato (Gip al Tribunale di Roma)