La realtà sul patrimonio delle famiglie italiane

Sicuramente, negli ultimi anni, sarà capitato di sentire qualcuno che snocciolava dati sul patrimonio delle famiglie italiane, solitamente in contraltare alla quantificazione del debito pubblico per indicarne la solvibilità, altre volte per ipotizzare delle strategie estemporanee di stabilizzazione della finanza pubblica o, addirittura, proponendo nuove tasse “solo per i ricchi”.

Banca d’Italia, in effetti, riferendosi alle rilevazioni del 2020 ha calcolato che il patrimonio aggregato delle famiglie nel Bel Paese superi i 10’000mld di euro che, per intenderci, vuol dire 5 volte e mezzo il PIL del 2021, mentre una recente pubblicazione della FABI, il principale sindacato bancario, ha calcolato che oltre la metà di questo patrimonio, 5’256mld, sia detenuto in attività finanziarie, più o meno liquide.

Con un rapido calcolo si potrebbe dire che a livello pro-capite ogni italiano abbia un patrimonio liquido di circa 87’000 euro ma, come nel paradosso del pollo di Trilussa, è evidente che la realtà non sia esattamente quella che una statistica, letta senza grossi approfondimenti, possa rappresentare.

Qualcosa stona, infatti, rispetto alla narrazione degli ultimi anni sull’impoverimento della popolazione e, pure, rispetto ai dati, validati anche in sede OCSE, secondo cui i salari italiani, unici in tutto l’occidente, abbiano avuto una contrazione del 3%, in termini reali, negli ultimi 30 anni.

Andiamo con ordine, però, e analizziamo prima velocemente come sia composta questa mole, sempre crescente, di risparmio.

Dopo l’investimento immobiliare, che non concorre al calcolo della ricchezza finanziaria anche se, in verità, lo si potrebbe considerare un’immobilizzazione pluriennale, l’asset preferito dagli italiani è il denaro contante. No, non l’accumulo di monete e banconote in un deposito come Paperon de’ Paperoni ma il deposito della liquidità in conto corrente, facilmente smobilizzabile e prontamente utilizzabile, che assorbe quasi un terzo di tutto l’ammontare dell’aggregato, questo nonostante la continua erosione del capitale tra imposte di bollo, costi di gestione e erosione del valore reale data dall’inflazione che non sono compensati da alcun tipo di interesse (o quasi). Segue, per circa un quarto del totale, l’investimento assicurativo in polizze vite e l’accantonamento previdenziale in strumenti pensionistici integrativi assicurativi, PIP, o fondi pensione aperti, FIP.

Gli ultimi anni caratterizzati da una situazione anomala di tassi schiantati (se non negativi), poi, hanno fatto crollare gli investimenti obbligazionari poiché per cercare un rendimento anche solo conservativo era necessario andare su classi di rischio più elevate, cosa, spesso, non esattamente consigliata neppure agli investitori privati più aggressivi.

Azioni e fondi, invece, hanno riscontrato, per le stesse ragioni, una crescita interessante, come asset class in portafoglio, anche per via della proposta ai risparmiatori di strumenti, come i PAC (Piani di Accumulo), che hanno permesso a molte persone di avvicinarsi al risparmio gestito con formule che garantivano diversi vantaggi fosse anche solo dal lato della minimizzazione del rischio. Oggi questa classe di investimenti, sull’aggregato, ha superato la liquidità tout court posizionandosi su un a quota ben oltre il terzo del totale. Quote residuali, infine, sono riservate a monete metalliche, denaro contante e altre tipologie di investimento.

Il quadro, fin qui tracciato, sembrerebbe dipingere una situazione assai positiva; una maggiore patrimonializzazione delle famiglie significa una maggiore capacità di reazione dalle crisi che, ormai, si susseguono di continuo nel corso del tempo ma, come già accennato, la realtà non è esattamente quella che una fredda statistica possa descrivere.

Tralasciando i soliti dati di Oxfam, viziati strutturalmente dalla scelta (voluta) di un modello di elaborazione ideato per valutare la stabilità creditizia e non la concentrazione di ricchezza, unendo a questo studio della FABI il report di Bankitalia sui bilanci delle famiglie italiane del 2020 e il recente studio della CGIA di Mestre sul loro indebitamento è possibile tracciare un’immagine molto più vicina al vero della situazione nel Paese.

Nel primo caso si può rilevare che negli ultimi anni l’indice di Gini della ricchezza famigliare sia cresciuto fino al 68,2% mentre quello relativo ai redditi è più o meno stabile al 39,5%. Cosa significa questo? Innanzitutto vediamo come si deve leggere il dato: l’indice di Gini va a misurare il livello di concentrazione e ha un range tra 0 e 1, dove 1 rappresenta il grado di concentrazione massima, quindi se dal lato reddituale si può notare un livello di concentrazione abbastanza basso, dal lato patrimoniale la situazione è all’opposto. Questo indica che a spingere la crescita dei patrimoni il risparmio da reddito da lavoro, in sé, abbia inciso in maniera piuttosto bassa nell’aggregato e quella sia stata generata, principalmente, dall’impiego di patrimoni preesistenti, tra investimenti e accumulo.

In aggiunta a questo il lavoro presentato dalla CGIA di Mestre mostra un forte aumento dell’indebitamento delle famiglie che, credibilmente, è servito per far fronte alle esigenze di spesa, non potendo contare su una reale progressione reddituale a fronte dell’aumento dei prezzi e delle tariffe, e non per finanziare investimento di tipo patrimoniale come quelli immobiliari. La situazione, quindi, non è esattamente rosea come una lettura superficiale del report della Fabi potrebbe suggerire.

La retorica del “i ricchi sono sempre più ricchi mentre…” ha, dunque, un suo fondamento e deriva principalmente dalla questione reddituale che, da anni, affligge l’Italia in un relativo disinteresse delle parti sociali.

Su queste pagine avevamo già parlato dei working poor ma la situazione di progressivo impoverimento di buona parte degli italiani è ben più ampia e strutturale: un sistema economico che si basi su debito e consumo del risparmio passato non è sicuramente sostenibile nel lungo periodo perché la crescita ha sì bisogno di consumi ma anche e soprattutto di investimenti e questi sono figli sia di una continua progressione reddituale sia di una certa fiducia nel futuro.

Al di là degli aspetti critici e contingenti di questi ultimi anni, pandemia e guerra in Ucraina principalmente, la vera sfida che oggi si presenta passa dal rilancio del reddito da lavoro e, forse, sarebbe il caso che politica e parti sociali la facessero propria, il tempo a disposizione non è infinito.