Quella cultura mortifera che attanaglia l’Europa

Nel braccio di ferro, tra Paesi del nord e del sud Europa, sull’eventuale emissione di coronabond per condividere in seno a tutta l’Ue la battaglia contro la recessione economica, si contraddistingue la fermezza di alcune nazioni. Tra i cosiddetti falchi del rigore si staglia l’Olanda, con il premier, Mark Rutte che si oppone con tutte le forze ad ogni mutualizzazione del debito per combattere le conseguenze economiche del Covid-19.

Il ministro delle Finanze dei Paesi, Wopke Hoekstra, ha persino proposto a Bruxelles un’indagine europea sul perché alcuni Paesi non hanno usato la crisi del 2008 per risanare le proprie finanze. In pratica il pensiero della classe politica olandese, che rispecchia quello di molti altri Paesi dell’Europa del Nord, è che le cicale del Mediterraneo si sono mangiati tutti i soldi e ora chiedono aiuto ai cugini bravi e rigorosi. Queste uscite hanno mandato su tutte le furie il primo ministro portoghese, Antonio Costa, che definito “ripugnante” e una minaccia per il futuro dell’Unione europea” il discorso del ministro Hoekstra.

In queste ore sembrano ammorbidirsi le posizioni del Paese dei tulipani ma le distanze rimangono siderali rispetto alle cancellerie che chiedono un vero piano Marshall per il rilancio di tutta l’Eurozona. Intanto però sale il bilancio dei morti anche in Olanda, a seguito del coronavirus. L’ultimo aggiornamento da parte delle autorità sanitarie riferisce che mercoledì sono morte 166 persone e porta ad un totale di 1.339 decessi. Le persone ricoverate nelle ultime ore sono 625 per un totale di 5.784 e i contagi totali da Covid-19 sono 14.697.

La “mancanza di empatia” olandese sembra rispecchiarsi anche nel suo apparentemente solido sistema sanitario. L’Olanda, insieme al Belgio, è infatti il Paese che per primo ha introdotto l’eutanasia attiva in Europa, concessa, previa valutazione di una commissione, perfino ai depressi e persone con problemi mentali.

In questi giorni ha fatto discutere un articolo di Libero che racconta del modulo diffuso dai dottori di famiglia olandesi ai cittadini che abbiano superato una certa età. Nel documento si chiede agli assistiti se, in caso di positività al Covid-19 e la situazione dovesse aggravarsi, questi vogliano essere curati con una “lunga ventilazione” o lasciare che la malattia faccia il suo corso. Il tutto sarebbe al fine di evitare affollamenti all’interno degli ospedali, e soprattutto nei reparti di terapia intensiva.

A sottolineare la differenza di approccio tra Olanda e molti Paesi del sud è stato proprio un medico fiammingo. Frits Rosendaal, capo del reparto di epidemiologia clinica dell’ospedale universitario di Leida, ha detto la differenza è la gestione dei posti disponibili nei reparti di terapia intensiva: in Italia, ha osservato il medico, “ricoverano persone che noi in Olanda non ricovereremmo perché troppo anziane. Gli anziani godono di una considerazione molto diversa nella cultura italiana”.

Sulla stessa linea Hans van der Spoel, vicedirettore della terapia intensiva all’ospedale universitario di Amsterdam. Le sue parole sono inequivocabili: “Ci sono grandi differenze tra noi e paesi come la Francia e l’Italia”. Nei Paesi Bassi, spiega ancora il medico, “di solito si riflette molto di più se sia un beneficio per il paziente un così lungo apporto di ventilazione”, mentre “più vai a Sud, più diventa poco negoziabile interrompere questo trattamento che allunga inutilmente la vita”. In Italia infatti “l’età media dei pazienti in terapia intensiva è molto più alta” che in Olanda.

Va detto però che la tentazione privare di cure adeguate i soggetti più deboli e con meno possibilità di guarigione non è un modo di operare riscontrabile solo in Olanda. Testimonianze simili arrivano da quasi tutti i Paesi occidentali, compresi Spagna e Italia, dove malgrado la sanità pubblica e un retroterra culturale cattolico, in molti ospedali, all’inizio dell’emergenza, sono stati costretti a scegliere a quali pazienti fornire un ventilatore polmonare.

Le cose non vanno affatto meglio negli Stati Uniti dove, malgrado Trump abbia esteso la copertura sanitaria per la cura del Coronavirus a tutti, un ragazzo di 17 anni è morto, in California, dopo essere stato rifiutato dall’ospedale perché non aveva l’assicurazione sanitaria. Il freddo calcolo della sanità privata è arrivato prima della burocrazia che deve sbloccare i fondi pubblici.

La lezione italiana è stata dunque la riscoperta della vera vocazione dei medici e del personale sanitario. Nel giro di poche settimane migliaia di camici bianchi, con il loro impegno, hanno cancellato anni di inutile dibattito sull’eutanasia e suicidio assistito tesi solo a mascherare i tagli dolorosi al sistema ospedaliero. Senza fare calcoli e combattendo come leoni, spesso privi di dispositivi di sicurezza, hanno dimostrato che non esistono vite che non sono degne di essere salvate e che non ci sono categorie di persone che meritano di essere scartate. Uno schiaffo alla cultura mortifera che attanaglia il Vecchio Continente. Quello che hanno fatto i nostri medici ci ricorda quindi che qualunque futuro vogliamo riprogettare per l’Europa sarà fondato sulla roccia solo se costruito nell’orizzonte del primato della vita.