Quartieri “monoetnici”: un modello che l’Italia non deve seguire

 

I flussi migratori costituiscono da tempo un tema al quale la politica del nostro Paese, più di altri, ha rivolto una speciale attenzione.

D’altra parte la crescente rilevanza e drammaticità del fenomeno e la realistica valutazione della sua inarrestabilità, pone con forza due questioni che, contrariamente da quanto fino ad oggi è avvenuto, devono essere considerate parimenti rilevanti ed interconnesse.

Da un lato delineare un’efficace politica di integrazione per i tanti che regolarmente vivono e lavorano in Italia: oltre cinque milioni secondo i dati del XXV Rapporto Immigrazione Caritas – Migrantes, di cui circa un milione quattrocentomila musulmani. Dall’altro contenere, per quanto possibile, il reflusso migratorio contrastando decisamente quello illegale.

A ben vedere la soluzione della prima problematica potrebbe favorire la definizione dell’altra e comunque certamente risultare utile per osteggiare il terrorismo integralista che, come i drammatici e recenti attentati in Europa hanno dimostrato, ha come protagonisti immigrati residenti anche di seconda e terza generazione.

Ciò rende urgente elaborare modelli di inclusione tali da consentire l’equilibrio tra la tutela dei principi fondamentali consolidati nel contesto di accoglienza ed il diritto dello straniero, ormai cittadino, alla conservazione del proprio patrimonio culturale.

In particolare, per quanto riguarda l’integrazione dei musulmani, gli Stati europei non hanno ancora elaborato strategie che possano bilanciare diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti, e ciò verosimilmente in quanto non sono stati affrontati con il necessario impegno culturale e legislativo, i conflitti che in contesti laici sono sorti, nonostante l’attitudine dei musulmani alla piena integrazione, tra le norme di derivazione religiosa e quelle statuali.

Invero non si può negare che sia il modello multiculturalista britannico che quello assimilazionista francese, utilizzati anche da altri Paesi europei tra i quali la Spagna, si prestano ad una serie di critiche che in alcuni casi sono corroborate, tragicamente, dai fatti. Il primo, teso a confinare concettualmente e fisicamente le minoranze nel perimetro della comunità di provenienza, sfocia di sovente nell’autoreferenzialità quanto non addirittura nel segregazionismo, mentre il tentativo di integrazione “dell’altro” ipotizzato dal modello assimilazionista ha, nel lungo periodo, evidenziato i suoi risvolti più pericolosi.

Il processo di deculturazione che ha coinvolto gli immigrati francesi, principalmente nordafricani di fede musulmana provenienti dalle ex colonie, si è riprodotto in una crisi di identità profonda delle seconde e terze generazioni, che si sono autopercepite escluse dal discorso pubblico, esponendosi a seduzioni neofondamentaliste sostitutive di una presunta identità perduta nelle società d’accoglienza.

I casi di Belgio, Francia e, in ultimo, della Spagna con lo straziante attentato di Barcellona impongono dunque una riflessione profonda e testimoniano che laddove le politiche degli Stati hanno interpretato l’integrazione come rinuncia alla identità di provenienza, questo ha avuto come effetto naturale lo straniamento nei confronti della società d’accoglienza. Per questa ragione l’Italia è chiamata ad elaborare strategie e modelli di integrazione originali, che superino gli errori del passato e valorizzino le caratteristiche del territorio.

L’immigrazione italiana è infatti protagonista di una certa dispersione territoriale che, seppur osteggiata e considerata spesso come la conseguenza di una mancanza di pianificazione, può essere convertita in un punto di forza, impedendo l’affermarsi di un modello insediativo a quartieri “monoetnici” e garantendo il dialogo e la reciproca permeabilità con il tessuto sociale d’accoglienza.

È in questa diffusione, dovuta alla velocità delle dinamiche innescate dalla pressione migratoria e alla diversificazione dei Paesi di provenienza, che sta la chiave di un nuovo modello di integrazione, poiché è soltanto nella prossimità che si attiva quel processo di contaminazione e osmosi che garantisce una vera inclusione.

L’elasticità dei paradigmi di accettazione e soprattutto una concezione di identità culturale come processo dinamico aperto, configurano un modello di integrazione particolarmente adatto ad un Ordinamento come il nostro che del diritto “alla differenza”, insito nei principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, ha fatto uno dei suoi pilastri fin dall’inizio della sua storia.

Gerardo Villanacci – Professore ordinario di Diritto privato all’Università di Ancona e docente della Scuola Nazionale di Pubblica Amministrazione Roma