Quaranta giorni a Teheran

Iran
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L’indignazione espressa “anche a titolo personale” da Sergio Mattarella all’appena arrivato ambasciatore iraniano, presentatosi davanti a lui per la consegna delle lettere credenziali, è un passo con pochi precedenti: vuoi per l’istituzione che lo ha compiuto, vuoi per la circostanza, vuoi per la scelta delle parole. Quando in un momento di pura diplomazia si fa capire che solo la cortesia personale impedisce di sbattere la porta in faccia, allora vuol dire che le cose sono messe davvero male. Ma c’è, purtroppo, un altro elemento: da quando sono cominciate le proteste, quella di Mattarella è una delle poche voci – per quanto la più autorevole – che in Italia si sono davvero levate per denunciare lo scandalo della repressione, delle condanne a morte, della condizione in cui deve vivere la donna nella Repubblica Islamica.

Eppure le manifestazioni si susseguono da mesi. Soprattutto, si ripetono con la stessa indocile cadenza delle dimostrazioni che nel ’79 portarono, alla fine, alla caduta dello Shah. La polizia fa una vittima, seguono quaranta giorni di lutto, al quarantunesimo si manifesta per il suo ricordo, al che la polizia uccide di nuovo; quaranta giorni di lutto, manifestazione, altra vittima. Così via. La dinamica spiega perché la protesta si sia fatta, con il tempo, meno oceanica ma più diffusa sul territorio; meno somigliante ad una Occupy Teheran e qualcosa di più simile alla rivolta dei neri sudafricani che nel 1985 aprì le porte alla fine dell’Apartheid. Non si può sapere come finirà questa volta, ma certe premesse ci sono.

L’unico elemento che, finora, sembra impedire uno sbocco simile a quello del 1979 è rappresentato dall’assenza di un Ruhollah Khomeini. Vale a dire: un leader carismatico pronto a tornare dall’esilio, in virtù di un accordo con alcuni esponenti moderati (all’epoca Bani Sadr) e dando una serie di garanzie. La prima fase della Rivoluzione Islamica si poggiò su questi elementi, e per questo ebbe successo. Questa volta la famiglia Pahlavi, nel ’79 regnante, ha tentato di proporsi, ma con poco successo; almeno successo evidente. La questione quindi si presenta di difficile soluzione, e non è solo per la ferocia della repressione. Dietro a Khomeini, poi, c’erano anche interessi internazionali (rientrò a Teheran da Parigi con un volo Air France pieno di giornalisti americani, e qui ci fermiamo), ma soprattutto una spinta per il cambiamento. Una spinta che, ricordiamo anche questo, trovava molta della sua origine proprio in Occidente. Un Occidente all’epoca in crisi di identità, sì, ma non di leadership.

Erano, quegli anni, tempi in cui ci si interrogava da questa parte del mondo sulla liceità della nostra egemonia culturale rispetto al Terzo Mondo e ai paesi in via di sviluppo. L’Iran era parte del Terzo Mondo, quanto allo sviluppo era una via da esso percorsa già da una ventina di secoli. Ma siccome come una ex colonia era stato usato dai tempi dell’invasione russa del 1948 e del golpe contro Mossadeq, a ragione lo guardavamo con una certa percentuale di sporcizia nella coscienza. Ecco che si presenta un uomo che parla di Dio e chiede libertà. Da questa parte, quella delle democrazie, non parve vero. Anche ai cattolici la cosa piacque, perché in fondo era la rivincita dei credenti su un autocrate laicista. Il resto non stiamo nemmeno a rievocarlo, perché è sotto gli occhi di tutti.

Non si tratta però di puntare l’indice, oggi che gli ayatollah ci mostrano il loro volto più disumano, contro la religione. Le vignette di Charlie Hebdo (che rise del sangue dei terremotati dell’Italia Centrale e delle vittime del Ponte Morandi) oltre all’offesa non riescono ad andare. Questo è il loro stile. Sull’altro piatto della bilancia bisogna mettere l’incontro tra Francesco e l’ayatollah al Sistani. Il Corano non è contro l’uomo, e nemmeno impone il velo alla donna: sono le sue interpretazioni a farne strumento di oppressione. Ciò detto, il mondo occidentale deve porsi il problema politico di cosa fare con Teheran, da cui dipendiamo per motivi energetici e che, per la sua posizione geografica come religiosa, è uno dei grandi snodi dell’Asia.

Finora è stato fatto poco: non è solo questione della guerra in Ucraina, è che quarant’anni fa ci ponemmo un problema, tentando di dare una soluzione. Magari sbagliata, ma una soluzione. Oggi non abbiamo più le forze nemmeno per porci il problema, ed è molto peggio. Se lasciamo passare ogni volta, inermi, quaranta giorni, a Teheran ci giudicheranno ancora tra quarant’anni.