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I principali fattori di rischio per il Coronavirus

La pandemia di COVID-19 si è diffusa con estrema velocità e pervasività. Fortunatamente la letalità e anche la frequenza di forme critiche di malattia (che richiedono il ricorso alla terapia intensiva) sono limitate al 5% circa delle infezioni. È vero che il virus causale, SARS-CoV-2, colpisce “a caso”, quando incontri le occasioni favorevoli di trasmissione, e che queste forme gravi di malattia possono interessare tutti, ma, di fatto, la letalità si concentra in alcune popolazioni “a rischio”, che quindi vanno specialmente protette.

Abbiamo acquisito dati sufficientemente precisi che consentono di definire queste popolazioni speciali a rischio. L’età è un fattore indipendente di rischio. Il massimo rischio di letalità è nell’età avanzata, oltre 70 anni. I bambini e gli adolescenti fino a 20 anni sono a debole rischio di malattia grave. Tuttavia anche i bambini trasmettono l’infezione: il dato è di particolare importanza per la diffusione del contagio, specie nei rapporti con genitori e parenti anziani.

L’età avanzata con comorbosità è il maggiore fattore di rischio. D’altronde, l’età si accompagna frequentemente con la presenza di malattie croniche cardiovascolari, diabete, ipertensione, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e tumori. Si valuta che queste siano presenti nel 65% dei soggetti di oltre 70 anni.

Il genere maschile è più a rischio rispetto alle donne per malattia grave e per letalità (2,1% vs 1,6%). Anche l’obesità  è un potente fattore di rischio (è appannaggio in Italia di circa il 20% della popolazione). I pazienti immunocompromessi, per condizioni patologiche, per chemioterapia antitumorale o per trapianto d’organo, rappresentano una popolazione vulnerabile con un 20% di rischio aggiuntivo (che peraltro va bilanciato con il rischio di interrompere la chemioterapia). Condizioni di immunocompromissione sono correlate inoltre a tubercolosi, in cui è segnalata una più rapida evoluzione alle forme gravi di COVID-19, e all’infezione HIV/AIDS, che peraltro non sembra rappresenti un serio fattore di rischio, se bene controllata dalla terapia antiretrovirale. Anche il fumo di tabacco è associato a un rischio almeno doppio di ricovero in terapia intensiva e di morte.

Altre situazioni di rischio “ambientali” si riscontrano in carcerati, soggetti senza tetto e persone disabili, così come negli ospiti di Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). Fra le misure di prevenzione delle malattie infettive, tanto più in caso di situazione epidemica, il caposaldo è rappresentato dalla profilassi, in primo luogo dalla profilassi “attiva” mediante vaccinazione.

Nel caso di COVID-19, nella fase iniziale della pandemia non era disponibile un vaccino. D’altronde, l’agente eziologico, SARS-CoV-2, rappresenta una nuova specie di coronavirus apparsa sulla scena ufficialmente solo nel dicembre del 2019 e il cui genoma è stato sequenziato nel gennaio del 2020, addirittura prima dell’annuncio ufficiale della pandemia. Lo sviluppo di un vaccino nel passato ha richiesto circa 10, a volte anche oltre 20 anni. La pandemia COVID-19, con i suoi drammatici riflessi sanitari (in termini di devastante impatto sui sistemi sanitari), economici (in termini di caduta del Prodotto Interno Lordo, delle attività produttive e commerciali, dei redditi familiari) e sociali (distanziamento fisico e sociale, smart working), ha avuto e ha tuttora un enorme impatto su scala planetaria. Questo, unitamente alla possibilità di avvalersi della bioingegneria, della bioinformatica e delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, ha fatto sì che, straordinariamente, nell’arco di un solo anno si sia arrivati ad allestire diversi vaccini che hanno poi completato l’iter registrativo.

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