Intervento

Perché la Bce si sta muovendo sul filo di un rasoio

Nella riunione di marzo la BCE ha alzato, come prevedibile, il tasso di interesse di un ulteriore 0.5; prevedibile perché dopo le dichiarazioni degli ultimi mesi un’inversione repentina del trend di fronte alla possibile crisi del settore bancario inaugurata, ancora una volta, oltreoceano avrebbe significato perdere la reputazione in un settore dove la credibilità e le aspettative sono tutto. Il vero problema, infatti, è stabilire oggi se l’attuale board della BCE abbia veramente questa credibilità.

Innanzitutto la foga ideologica con cui si sia seguita, quasi da manuale, la strada della stretta monetaria repentina, dopo anni di politiche espansive, per contrastare il caro prezzi, senza una vera e propria analisi delle cause di questo, non depone esattamente a favore della visione dei vertici della Banca Centrale, così come la mancanza di una linea trasparente e di un obiettivo finale della politica monetaria non sono certamente dei punti che possano confermare la fiducia degli operatori all’istituto e ai suoi vertici.

Ma partiamo dall’inizio. Inflazione. Il mandato principale del Sistema Europeo delle Banche Centrali e, quindi, della BCE, che ne fa parte, è quello di garantire la stabilità dei prezzi, il resto viene dopo e qui nasce il problema. L’inflazione è, principalmente, un fenomeno monetario, non un mero rialzo dei prezzi, dato dalla perdita di valore della moneta a fronte di un eccesso di offerta e, da qui, i mezzi per contrastarla canonici quali le politiche restrittive sull’emissione di moneta e il rialzo dei tassi di interesse per ridurre il moltiplicatore del credito. Se il rialzo dei prezzi non deriva da questo ma da dinamiche di mercato, come un’impennata del costo dell’energia, non si può parlare di inflazione in senso letterale anche se nel senso comune la differenza sia minima; il problema viene quando la Banca Centrale interpreta il senso comune e attua una stretta monetaria all’uscita da una crisi planetaria, come quella pandemica, con il rischio di azzerare la ripresa economica o, addirittura, di azzoppare il sistema bancario con una nuova crescita di crediti deteriorati a seguito del rialzo dei tassi. Questo, infatti, è quello che è avvenuto.

Per frenare il caroprezzi non è servito il tapering, non è servito il continuo rialzo dei prezzi ma le mutate condizioni di mercato, con il crollo delle quotazioni del gas e la discesa del petrolio. Vero è che il tasso di inflazione core, cioè quello calcolato su un paniere depurato dai beni a forte volatilità come energia e alimenti, sia oggi piuttosto elevato, a 6,38% contro il valore target pari a 2% ma si è sicuri che il costo dell’energia non incida anche sui prezzi degli altri beni presenti nel paniere statistico?

Spesso ho scritto che, in un’ipotetica riforma fiscale, occorra partire da un intervento forte sull’energia perché è un asset che influenza tutti gli altri, dalla produzione di grano a quella delle scarpe, all’acciaio ai servizi e così succede anche nel caso di shock di prezzo, la crescita del prezzo dell’energia si propaga anche su tutti gli altri e non è possibile, veramente, depurare una rilevazione empirica, come quella dell’inflazione, dal peso del costo di gas e petrolio e, di conseguenza, del KWH. Adesso ci si potrebbe chiedere se l’azione della BCE sia stata inutile.

Al momento no, siamo chiari, era necessaria una normalizzazione della politica monetaria dopo anni e anni di tassi negativi e la tensione generata dal clima aleatorio che Christine Lagarde ha creato con i continui rialzi del tasso di riferimento, in verità, ha permesso di salvaguardare il cambio euro/dollaro a fronte del rialzo dei tassi oltreoceano per contrastare, là sì, una corsa dell’inflazione dovuta alle politiche espansive del governo Biden e solo in parte alla ripresa della domanda post pandemica unita al rialzo dei costi delle materie prime.

Il problema del balzo verso l’alto repentino dei tassi, però, rischia di traslarsi sulla tenuta del sistema creditizio. Tanti anni a tassi schiantati hanno permesso un ricorso maggiore al credito, sia fondiario spingendo il settore immobiliare sia al consumo pensando soprattutto all’acquisto di beni ad alto prezzo come le automobili, e una crescita dei tassi potrebbe innescare un’altra crisi degli NPE come già successe anni fa destabilizzando quel settore che rappresenta la “cinghia di trasmissione” di tutta l’economia finanziando investimenti e gestendo i pagamenti. Non è un caso che le politiche monetarie restrittive abbiano coinciso, negli ultimi decenni, con i periodi di recessione, cosa più evidente sul mercato statunitense e meno in Euroarea ma pur sempre ravvisabile osservando le curve statistiche sovrapposte di questi anni.

Dopo i fallimenti dei primi istituti di credito in USA, la crisi di Credit Suisse e l’allarme lanciato su Deutsche Bank, anche se parrebbe esagerato e frutto di un mero gioco speculativo sui Credit Default Swap, in un primo momento si era visto anche un ribasso accentuato sugli indici dei principali listini di borsa, con Milano “maglia nera” per il peso del settore bancario sulla capitalizzazione complessiva, ma oggi sembra che il trend si sia rapidamente invertito facendo ritornare le borse in zona positiva. Questo cosa significa?

Semplice, le decisioni degli operatori non seguono ma anticipano i mercati e, oggi, stanno scommettendo su un cambio di passo sia della FED sia della BCE, che potrebbe tramutarsi in un taglio dei tassi a breve per evitare l’innesco di una spirale recessiva. Sicuramente non è credibile un ritorno ai tassi nulli ma un rallentamento se non un’inversione della stretta monetaria portata avanti in questi mesi è più che credibile anche per le tensioni che si stanno creando all’interno dei board delle banche centrali.

Già Fabio Panetta, che non è un sindacalista dei bancari ma un membro del Direttorio della BCE, e Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, invitavano a una maggiore prudenza nelle decisioni del Consiglio Direttivo della Banca Centrale, valutando al meglio i dati senza lasciarsi condizionare dalle pressioni dei “falchi” che premerebbero per una stretta monetaria ancor più marcata, un nuovo “whatever it takes” a contrasto dell’inflazione, in pratica.

Con l’intervento del vicepresidente della BCE, Luis de Guindos, che indica il pericolo di un credit crunch, se si continuasse con le modalità erratiche e prive di un reale obiettivo finora perseguite, sembrerebbe che il cambio di passo sia, ormai, realtà. Nelle prossime settimane vedremo, quindi, quali saranno le decisioni della BCE a fronte sia del rallentamento della FED nelle misure restrittive sia dello spettro di un possibile nuovo deterioramento della tenuta del sistema creditizio europeo.

Francoforte, oggi, si muove sul filo di un rasoio e con esso tutta l’economia continentale che, nonostante tutto, sta mostrando una forte capacità di resistenza e di crescita di fronte alle innumerevoli incertezze che restano a strascico del biennio pandemico, della guerra in Ucraina e della lotta all’inflazione (sempre che di inflazione si tratti, ripeto) da parte della Banca Centrale. Un cambio di passo unito a una maggiore trasparenza significherebbe maggiore credibilità che, probabilmente, è quello che manca alla gestione post Draghi e che ha reso meno incisive le azioni condotte finora.

Matteo Gianola

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