Perché il lavoro non decolla

Due anni fa il Governo lanciò un’offensiva mediatica volta ad annunciare piani straordinari per far crescere l’occupazione, soprattutto giovanile. I dati italiani della prima fascia di età, da tempo sono complessivamente disastrosi: molti né studiano né lavorano; pochi coloro che conseguono un titolo di laurea; rara la pratica del rapporto tra istruzione e lavoro; i contratti di lavoro di inizio sono praticamente tutti precari; al primo lavoro si giunge quasi sempre oltre i 25 anni.

Si decisero nell’ambito della logica del jobs act, soluzioni nuove come il tempo indeterminato legato al contratto a tutele crescenti, con un esonero totale dei contributi previdenziali dal 1 gennaio 2015 fino a tre anni, che unito alla sostanziale abolizione dell’art. 18 sui licenziamenti, doveva incentivare le assunzioni e far crescere la occupazione. Ma i risultati non sono stati molto incoraggianti.

Ingenua l’aspettativa che in assenza di ripresa economica, il sistema produttivo potesse richiedere nuove persone al lavoro, solo perché si hanno a disposizione incentivi. Insomma, in assenza di commesse aggiuntive si può anche ottenere il risparmio su un terzo del costo di una unità lavorativa, ma chi paga gli altri 2 terzi? In molti casi è servito ad assorbire sacche di lavoro nero come al sud e nel centro nord a cambiare precedenti contratti con quelli nuovi più convenienti.

Con la legge di stabilità per il 2016, forse per la delusione rispetto ai dati scarsi ottenuti, e poi per scarsa disponibilità di risorse finanziarie, il governo ha dimezzato le provvidenze a favore delle nuove assunzioni. Ora pare che abbandonare del tutto gli incentivi per l’occupazione, ma sarebbe un grave errore.

Non si può, infatti, dare agli imprenditori segnali forti di aiuto alle assunzioni ed influenzarli nelle loro scelte, e poi bruscamente cambiare le regole del gioco. Altra cosa è, alla luce della esperienza fatta, riconfigurare i provvedimenti e renderli più selettivi e capaci di colmare vuoti. Ad esempio l’annosa questione dello scarso rapporto tra istruzione e lavoro, credo meriti attenzione in un Paese che possiede un poderoso apparato industriale e di servizi. Nei decenni passati questo nodo è stato sempre molto aggrovigliato, ma ultimamente le cose si sono aggravate a causa della globalizzazione dei mercati, ma soprattutto per la rivoluzione digitale.

A scuola si insegna come 30 anni fa, mentre i luoghi della produzione richiedono professionalità avanzate. Perseguire una politica aggressiva su questo tema, significherà cambiare la scuola e la cultura che ha dominato il Paese, di allegra separatezza tra luoghi di apprendimento e quelli di produzione; come se fossero diversi tra loro. È ingiustificabile la scarsa volontà di farsene carico nel sanare questo punto dolente per l’avvenire dell’Italia. Questo immane compito finora è stato affidato esclusivamente ai contratti di apprendistato, ma questi possono fare ben poco oltre la platea di giovani che non frequenta le scuole medie superiori e corsi universitari. Questo è un nodo che si può contribuire a sciogliere con incentivi mirati alle migliori pratiche, che concorrono a saldare la esigenza di istruzione legata a periodi previsti dai percorsi di lavoro nei luoghi di produzione di beni e servizi.

Le startup, possono essere un altro ambito interessante da privilegiare con ulteriori incentivi, per la crescita di queste attività promosse in grande parte da giovani; piccoli arbusti che si spera possano ben presto diventare alberi.

Anche il meridione d’Italia ha di mantenere gli aiuti. Gli incentivi finora sono serviti a convincere molte imprese ad uscire dalla elusione ed evasione contributiva, approfittando delle provvidenze e sarebbe letale, per i buoni risultati ottenuti, farli venire meno. Anzi, è il caso di incrementare la esperienza per bonificare la condizione triste di molte zone del sud abbandonate al lavoro nero.

Il Ministro del lavoro ultimamente ha rassicurato che non si abbandonerà il sostegno alle assunzioni e c’è da credere alla sua buona fede. Bisognerà vedere che ne pensa Renzi, impegnato come è ad inserire nel suo racconto agli italiani, nuovi spunti immaginifici per ottenere consensi.