Pensare non è di moda

Capita che su temi di grande interesse, o meglio di grande diffusione, molti dicano che una cosa è giusta e molti altri dicano che non è sbagliata; qualche volta capita persino che tra i  sostenitori delle tesi contrapposte molti siano gli stessi. La prima cosa che noto è che sono in molti a parlare, troppi; ancora più spesso si parla per sentito dire, per emulazione, senza riflessione, che invece ci porta a convinzioni opposte a quelle affermate inizialmente. Manca lo spazio necessario alla riflessione, al dialogo, all’approfondimento: lo si considera inutile, lento, farraginoso, defatigante, quasi una negazione della propria capacità di intuito immediato. Distinguiamo: taluni temi ci trovano immediatamente e convintamente schierati, in virtù della nostra appartenenza; tal’altri, la maggior parte, invece li assumiamo ingoiandoli e vomitandoli senza averli digeriti per effetto della necessità di prendere immediata posizione, di esserci, di dire la propria, giacché rispondere con un veritiero “non so” ci fa apparire incerti o, peggio ancora, privi di idee.

Eppure, anche fin dalla letteratura antica, senza scomodare Seneca, si trovano inviti alla prudenza, alla riflessione, ma questi tempi sono stati cancellati dalla necessità dei sondaggi (il pensiero di pochi, speso pochissimi, assunto a statistica mondiale e verità vincente), dai risultati immediati; ogni volta che mi capita di ascoltare i risultati elettorali sento percentuali di tutto rispetto (il 42%!) ma poi, analizzandoli, si scopre che sono calcolati non sul totale degli aventi diritto ad esprimersi ma sulla, oramai esigua, somma di chi si è espresso, elevando in tal modo la cifra che altrimenti sarebbe improponibile; un banale esempio tra tanti: il candidato che ha vinto le recenti elezioni in Emilia-Romagna viene tributato con un sonoro 49,05% ma in realtà la cifra è calcolata sui votanti, che sono stati il 37,7% per cui il consenso reale scende ad un modesto 18,4%, che gli consente di governare l’intera regione, di parlare a nome di tutti, per effetto non già del consenso riconosciuto ma di un perfido e irrazionale sistema elettorale. La voce di chi ha taciuto, invece, pur ben maggioritaria, rimane inascoltata.

L’assurdo si reitera in tante altre manifestazioni: si hanno migliaia di amici sui social ma se ne conoscono pochi, un programma deve la sua fortuna agli ascolti ma sono calcolati sulla proiezione di alcuni realmente censiti, un esercizio commerciale lega il suo successo non già ai clienti effettivi ma solo a quelli che se ne curano di registrarlo con il famigerato clic, e così via. Mi si osserva che questa è la chiave del successo ma ribatto che apre solo la prima porta; o che quello intanto però si è arricchito, e rispondo che oggi l’economia si sta orientando nello studio combinato tra la ricchezza e la soddisfazione, finalmente elaborando, scientificamente, il ben più antico detto che i soldi non fanno la felicità.
Sono cose ovvie, discorsi desueti, ragionamenti sepolti: ma ancora, tragicamente attuali, poiché esprimono problemi irrisolti da millenni. Forse, un po’ di silenzio aiuterebbe a pensare di più e ad agire meglio, cosa di cui tutti sentono la necessità.