Le macerie lasciate dalla pandemia e l’obbligo di ripartire

Circa un anno fa iniziava l’emergenza legata alla pandemia di Covid-19 ma in pochi avrebbero pensato come questa avrebbe condizionato la vita e le abitudini della gente.

Dopo il lungo lockdown della scorsa primavera, la pausa estiva aveva fatto tirare un sospiro di sollievo nella speranza di una normalizzazione della situazione, di lì a poco, ma la crescita dei contagi in autunno e i provvedimenti seguenti per il contenimento dell’infezione ha spinto una situazione sempre più critica in molti settori economici, soprattutto quelli legati all’intrattenimento e alla socialità.

Si è parlato ampiamente del problema delle attività di montagna, danneggiate anche dal tira e molla sul periodo natalizio, dei bar e ristoranti e dell’iniziativa #IoApro a cui diversi esercizi hanno aderito, delle palestre, delle discoteche ma c’è anche un’altra categoria, di cui poco si è parlato, quella dei locali e dei club di musica dal vivo.

Chi ha qualche anno sulle spalle, forse, ricorderà gli anni 90 e i primi 2000 quando anche solo a Milano, la città dove ho studiato, ne esistevano in gran numero. Oggi, con il tempo, diversi luoghi, anche storici, hanno chiuso, lasciando dietro solo i ricordi.

Non c’è più il Rolling Stone, trasformato in appartamenti abitativi, il Transilvania Live, diventato un garage, Il Rainbow, anch’esso trasformato in parcheggio, e anche altri come il Factory, il Binario Zero, l’Indian Saloon sono rimasti solo nelle memorie di chi li aveva frequentati.

Il 2021, per i locali sopravvissuti, si apre con uno stato di crisi mai vista prima.

Questi esercizi sono chiusi, più o meno, da marzo dello scorso anno e non si vede, oggi, uno spiraglio per cui possano tornare a ospitare serate e a generare introiti.

Tutto questo viene racchiuso in un hashtag #ultimoconcerto che 90 sale hanno condiviso sulle loro pagine social ed è rimbalzato, per solidarietà, su migliaia e migliaia di altri profili.

Non è un mistero che, nonostante le agevolazioni concesse dallo scorso governo Conte con la CIG per i dipendenti, il decreto liquidità per i finanziamenti, i ristori per compensare i mancati guadagni i provvedimenti abbiano avuto un effetto marginale nell’economia di queste aziende, non coprendo nemmeno i costi fissi; le chiusure imposte, quindi, hanno fatto da volano a una crisi che già era nell’aria da tanto tempo nel Paese e che, così, si è abbattuta in tutta la sua potenza, anche se molti ancora non se ne sono accorti.

Il problema, come già accennato su queste pagine, è legato alla ripartenza dell’economia e alla riapertura di tutte le aziende, così da poter nuovamente imboccare un sentiero di crescita sostenibile e generare reddito.

Ecco la parola “reddito” è quella più importante perché solo dal lavoro e dalla produttività questo può essere creato e può essere redistribuito non attraverso bonus e sussidi ma attraverso un ritorno alla normalità del lavoro e della vita di ogni giorno.

Non si vuol certo negare la portata dell’epidemia ancora in corso, né dire che non sia importante ma parlare, oggi dopo un anno, di normalità, anzi di una nuova normalità almeno finché vaccini e cure non possano debellare il rischio sanitario, è importantissimo.

Bisogna uscire dallo stato emergenziale e valutare come la gestione di un problema, ormai strutturale, come quello del virus Sars-Cov-2 possa essere inserita in un quadro di normalizzazione dei rapporti sociali e dell’economia per evitare un crack sistemico. Certo non sarà la chiusura dei locali di musica dal vivo a spingere lo stato di crisi ma questa è, senza dubbio, un termometro della situazione.

Lo so, io sono di parte come amante dei generi musicali che sono legati indissolubilmente ai live e alla socialità ma in quanti, nel passato, hanno amato gustare dal vivo la propria musica preferita? Che sia un concerto, un balletto o un’opera come l’Aida?

Non si tratta solo dei live club, infatti, ma anche di teatri e sale da concerto che, dopo un anno di mancati incassi, si trovano con i conti disastrati e con lo spettro della chiusura definitiva di fronte a loro. Con loro, poi, tutto l’indotto, dai musicisti ai tecnici, dai bar ai fornitori e ai manutentori, eccetera.

La crisi di un settore potrebbe generare quello che si chiama un butterfly effect propagandosi a macchia d’olio su tutti gli altri e, quando questa diventasse troppo grande, anche sul pubblico portando un disequilibrio nei conti che impatterebbe anche sui servizi dello stato, sanità in primis.

Pensiamoci seriamente prima che questo #ultimoconcerto si trasformi da un grido di allarme a un requiem.