L’intransigenza e l’onestà

Ma siamo onesti? Normalmente questa locuzione è in forma esclamativa, e siamo abituati a pronunciarla quando percepiamo che la situazione volge in maniera che non ci trova consenzienti, perché qualcuno dei nostri interlocutori si veste da furbo o si allontana, a proprio vantaggio, dai canoni di comportamento in cui ci riconosciamo e, non volendo o non potendo litigare invochiamo, sinteticamente, la madre delle qualità umane. Già in questa azione, però, ci poniamo in posizione critica nei confronti dell’altro, ergendoci a rappresentanti e difensori di tale virtù morale, ché tale va considerata non potendosi limitare al suo aspetto economico, senza considerare che il solo atto dell’ergersi nei confronti dell’altro, ancorché privo della qualità che invochiamo, costituisce un errore relazionale (valga il solo chi è senza peccato scagli la prima pietra Gv,8,7) .

L’ottica dalla quale dovremmo invece muovere è quella interrogativa; ma noi, siamo onesti? In questa valutazione noi siamo soli con l’analisi di quanto di noi poniamo a giudizio e abbiamo da un canto l’obbligo, dall’altro la facilità di essere sinceri, con noi stessi, sia per non rendere inutile la valutazione sia perché nessuno ci ascolta, o peggio ci giudica, sulla nostra analisi. Ma troppo spesso rifuggiamo da questi pensieri, dalla nostra coscienza, dalla consapevolezza di noi stessi per evitare di porci a giudizio, attività che sovente e con troppa faciloneria rivolgiamo ad altri non solo per evitare di farci colpe (e sopportarne il relativo peso) quanto per avvantaggiarci nella competizione con gli altri, ché a tanto è oggi scaduta la nostra relazione sociale.

E invece è molto salutare interrogarsi sui nostri intimi pensieri, sulle nostre reali motivazioni, sugli scopi reconditi delle nostre azioni giacché da un canto siamo i soli a conoscenza della verità che ci riguarda, ed il giudizio ne riuscirebbe il più veritiero possibile, dall’altro riusciremmo ad espungere dalle nostre azioni quelle che sappiamo essere meno nobili, ché altrimenti ci sovrasterebbero rendendoci sgraditi anche a noi stessi.

Non a caso ho evocato l’onestà: essa è la vera radice del bene giacché consente l’emersione della parte sana dell’individuo, comprende la lealtà di azione e di valutazione, la sincerità nella visione dei fatti, la trasparenza della realtà, e via via si estende alla bontà d’animo, all’accoglienza, alla generosità, all’altruismo, virtù etiche espunte dal modo commerciale e relegate nella sfera religiosa (come se fosse altroterrena: mi si passi il neologismo) piuttosto che in quella individuale e comportamentale dove dovrebbero albergare.

Siamo certi, oltremodo, della disonestà altrui, la riconosciamo anche quando le parole o la forma appaiono corrette ma vediamo, con gli occhi dell’anima e della nostra consapevolezza, che non lo sono. Se applicassimo questi stessi metodi con noi stessi vedremmo cadere il perbenismo, l’ipocrisia, la furbizia, la falsità, l’ingiustizia che tanto ci avvelenano e riusciremmo a godere di quello che desideriamo e di un mondo migliore.