Quella legge di bilancio che non intona “L’Eroica”

Approved Agreement Authorized Stamp Mark Concept

La legge di bilancio è arrivata, passo dopo passo, al traguardo. E’ stato un cammino laborioso; sono state necessarie mediazioni complesse all’interno del governo, prima ancora che in Parlamento, dove il Senato ha votato il solito maxi-emendamento e la Camera non ha toccato palla; non si sono riscontrate più di tanto le solite lamentele rituali da parte della Camera a cui stavolta è toccato prendere in mano il cerino acceso passato da Palazzo Madama. Tirando le somme qualcuno potrebbe chiedersi se occorresse scomodare un pezzo da novanta come Mario Draghi per formulare una legge di bilancio che somiglia molto ad un albero di Natale: con un fusto ritto e solido ma con i rami carichi di palle colorate e di piccoli pacchi-dono. Ne citiamo a mo’ d’esempio solo alcuni, veramente ancien régime: dalla diffusione della musica filodrammatica ai buoni pasto dei magistrati onorari, dai fondi per la Cispadana, a quelli per i marciapiedi, ai 200 mila euro per la tutela della cultura dell’Ogliastra e della Barbagia al milione dato alla Sardegna per la sua condizione di insularità, ai due milioni e mezzo all’ospedale del Bambin Gesù per la spese effettuate e non previste, al contributo per l’anniversario della nascita di Puccini. Ma queste sono bagatelle, a fronte delle più importanti operazioni politiche.

Ogni partito della coalizione ha avuto la sua parte: il M5S si è visto persino valorizzare il reddito di cittadinanza ed è riuscito a difendere con le unghie e coi denti il superbonus immobiliare; la Lega, acquisita quota 102 come soluzione transitoria, per il resto ha passato la mano alla Cgil e si è concentrata sui tagli dell’Irpef e sulle bollette; il Pd si è preoccupato soprattutto che il M5S non dovesse lamentarsi e che il governo facesse pace con i sindacati che avevano proclamato lo sciopero generale. Insomma, più che una legge che intonasse “L’Eroica’’ è sembrata una fiera di Paese, anzi una liquidazione per cessata attività, quando si vuotano i magazzini e si svende a prezzi di realizzo.

Ma del resto non poteva che essere così perché l’impegno di Draghi non si è espresso nel lupanare della politica, ma su altri terreni come il premier stesso ha ricordato nella conferenza stampa di fine anno. “Abbiamo conseguito tre grandi risultati. Abbiamo reso l’Italia uno dei paesi più vaccinati del mondo, abbiamo consegnato in tempo il Pnrr e raggiunto i 51 obiettivi. Abbiamo creato le condizioni  – ha aggiunto Draghi – perché il lavoro sul Pnrr continui. Il governo ha creato queste condizioni indipendentemente da chi ci sarà (alla guida, ndr): l’importante è che il governo sia sostenuto da una maggioranza come quella che ha sostenuto questo governo, ed è la più ampia possibile. E’ una maggioranza che voglio ringraziare molto”. Draghi avrebbe potuto ricordare altri aspetti dei dieci mesi del suo governo: un recupero impetuoso e superiore alle più rosee aspettative della crescita; il cambiamento di strategia nella gestione della crisi sanitaria per evitare le chiusure; l’aver retto con la necessaria fermezza le contestazioni dei no vax, introdotto e difeso quella pratica della certificazione verde che sarà d’esempio in Europa; il prestigio a livello internazionale tanto sui mercati quanto nelle Cancellerie;  il ruolo di guida dell’Unione in partnership con Francia e Germania; l’essere riuscito a tenere compatta una maggioranza composta da avversari storici e soprattutto aver impedito – quasi sempre – che le polemiche di bandiera dei partiti si ripercuotessero all’interno del governo.

Ma lo stesso Draghi ha tenuto a sottolineare ciò che considera più importante nei prossimi anni e di cui – non a torto – sembra attribuirsi il merito: il Pnrr. Il fatto che i 51 obiettivi siano stati raggiunti andrebbe meglio chiarito e talvolta dimostrato; prendiamo atto che la macchina è in movimento (e che per fortuna il ‘’pilota’’ sta a Bruxelles), ma non siamo sicuri che sia in grado di atterrare ovunque, lungo la Penisola, allo stesso modo e con analoghi risultati. Il premier, inoltre, sa benissimo che nel prossimo anno non ci attende una marcia trionfale. Il virus è in campo; sempre più insidioso e impegnato ad aggirare con le varianti le relative certezze che abbiamo appena raggiunto; è ripartita in pochi mesi l’inflazione dopo anni in cui sembrava un ricordo del passato. I costi delle materie prime e dei servizi, al pari delle difficoltà a reperire personale qualificato nelle imprese, creano molte incertezze sul consolidamento di una ripresa in larga misura dovuta al ‘’rimbalzo’’, consentito dalla politica delle riaperture. Infine, non sono decollate quelle ‘’buone’’ relazioni industriali che il premier sollecitò nel suo intervento all’Assemblea della Confindustria e che indicò come un requisito indispensabile della ripresa.

La Confindustria continua ad essere un interlocutore evanescente (anche se ha il merito di aver sorretto la scelta del green pass nei luoghi di lavoro); i sindacati si rivelano sempre più come l’espressione di una società che chiede solo di essere protetta attraverso i divieti (la storia delle norme anti-delocalizzazioni è patetica), i blocchi, le misure assistenziali, il ritorno dello Stato nell’economia, non per impostare un salto di qualità nell’introduzione delle nuove tecnologie, ma per subentrare nel capitale delle aziende decotte al riparo di ammortizzatori sociali immortalati nel ruolo delle politiche passive.

Ma a dire la verità il discorso del premier è sembrato anche un passaggio di consegne. In sostanza, ha ammesso che – da ‘’nonno delle istituzioni’’ – potrebbe essere chiamato a svolgere la sua mission altrove. Non è da poco dichiarare che a prescindere dal suo destino personale ci sarà sempre un governo che porterà avanti il lavoro impostato nell’anno che si chiude. Può essere anche che l’aver mollato la presa sulla legge di bilancio denoti che l’interesse di Draghi ormai sia un altro. Ed è un segnale importante il riconoscimento che ha voluto fare alla maggioranza che ha sorretto il suo governo. “L’importante è che il governo sia sostenuto da una maggioranza come quella che ha sostenuto questo governo, ed è la più ampia possibile’’. Ognuna di queste parole ha un preciso significato che ci permettiamo di interpretare.

Draghi ha voluto annunciare che – se deve salire al Colle – deve essere l’attuale maggioranza a mandarcelo; e che dal Quirinale si farebbe garante di questa stessa maggioranza. Draghi sa bene che vi è una parte consistente della coalizione (la stessa che giura sulla sua permanenza semi-eterna a Palazzo Chigi) che ha in testa un diverso disegno: eleggere un capo dello Stato espressione del ‘’campo largo’’ e non ostile a una rottura della attuale maggioranza. Con l’esplicitazione della sua disponibilità Draghi ha fatto venire allo scoperto le effettive posizione dei partiti di maggioranza e di opposizione. E si è accorto che, al di là delle genuflessioni (che peraltro sono sempre meno) sono molto pochi quelli – che per un motivo o un altro – intendono mandarlo al Quirinale. Se non fosse un algido civil servant, potrebbe fare il verso a quel personaggio di un celebre film della commedia all’italiana:’’mi hanno rimasto solo’’.