L’ascensione europea di “don” Matteo

C’eravamo abituati al simpatico don Matteo della fiction, quello che da anni entra nelle nostre case col volto rassicurante di Terence Hill, sacerdote televisivo dal prodigioso intuito che risolve misteri e  problemi del paese. Ora invece, tutti i media si sono focalizzati su un altro “don” Matteo, questa volta senza tonaca. E non si tratta di un attore ma del leader politico del momento che sale sul palco dei comizi di nuovo con il rosario in mano, invoca i santi, cita i papi e affida il popolo al Cuore Immacolato di Maria. Sabato nell’appuntamento elettorale più importante, in piazza Duomo a Milano e in diretta web, il leader leghista Matteo Salvini ha esibito la componente religiosa in modo dichiarato, ripetuto e con orgoglio, lasciando basiti anche molti elettori del Carroccio, non tutti credenti e praticanti. Ciò nonostante il nuovo “don” Matteo va dritto per la sua via, forse non proprio quella gradita dalla Chiesa a giudicare dalle reazioni ufficiali. “Credo che la politica partitica divida, Dio invece è di tutti. Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso”, osserva il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano. “Il rosario brandito da Salvini e i fischi della folla a Papa Francesco, ecco il sovranismo feticista”, titola Famiglia Cristiana. E il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro scrive sui social: “Rosari e crocifissi sono usati come segni dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto al passato: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio”. 

Non è chiaro se sia stata una sua strategia elettorale o una personale professione di fede fatta senza prevedere conseguenze e ricadute sulla fascia di popolazione ancora attenta e fedele al Magistero della Chiesa. Forse qualcuno avrà abboccato a provocazioni studiate o qualcun altro si stupirà per gli attacchi subiti ritenendoli ingiusti? Di certo i fischi a papa Francesco non sono affatto piaciuti ricevendo indignazione bipartisan. Quel che è certo è che c’è un nuovo leader che riempie le piazze e non è più Beppe Grillo. Il comico, ricercato da tutti i media e capace di riempire i comizi, è praticamente sparito e lo considerano ormai lontano dal Movimento 5 Stelle. Nel frattempo sembra che l’Italia abbia comunque bisogno di un leader mediatico da osannare o criticare. Il problema è semmai l’effetto della dimensione religiosa catapultata in campagna elettorale. Sabato da queste colonne il direttore don Buonaiuto aveva lanciato un Sos per lo scadimento del dibattito politico avvelenato dall’accaparramento di visibilità e potere fine a se stesso. Sembra impossibile immaginare due concetti più lontani tra loro: la corsa ad alzare i toni e lo spirito di servizio. E invece sono due facce della stessa medaglia, due sponde del medesimo fiume. Ormai in politica e nei mass media è tutto un rincorrersi di esasperazioni, grida, insulti e iperboli. Un imbarbarimento del linguaggio che rispecchia un dibattito pubblico sempre più cupo e virulento. Dai social rimbalzano invettive di una sedicente classe dirigente che si illude di riempire con lo strepitio dell’aggressività il vuoto di proposte concrete. Il rumore di fondo impedisce qualunque riflessione costruttiva. Chi oggi punta l’indice, domani può finire nel mirino di critiche ingiuste e spietate, come l’apprendista stregone che evoca forza da cui può viene sopraffatto. Quindi, abbassare i toni è un’assoluta necessità. Al tempo stesso va tolta la patina di ipocrisia dalla giustificazione addotta: “Lo faccio per il bene comune”.  Il fine non giustifica i mezzi e la via dell’inferno, si sa, è lastricata di buone intenzioni. Anche alle parole può capitare una sorte infausta. E’ il caso di un termine oggi particolarmente in voga: servizio. Sempre più persone, in ambito civile come in quello religioso, si dicono “al servizio”. Del prossimo, di un’idea, di una causa, del bene comune. In realtà più che servire, tanti sedicenti “servitori” si servono degli altri. Ad un corso per diplomatici della Pontificia Università Gregoriana, è stato tracciato un identikit del “cattivo servizio” nella sfera pubblica. Spesso, infatti, la politica si tramuta in una religione secolarizzata che genera intolleranze. La politica per sua natura deve gestire il contingente e navigare in mezzo a soluzioni negoziate. L'azione politica è essenziale solo nella misura in cui rende possibile altre cose, la politica rimane una realtà imperfetta. La “Lumen gentium”, costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, ci insegna a diffidare dei messianismi politici: “La vera vocazione dei laici cristiani è cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”. Non certo accodarsi all’umore collettivo del momento. E, in epoca di politica gridata, non aiuta certamente improvvisarsi simili a un “don”.