L'araba fenice dell'Iva in aumento

A volte ritornano” non è solo il titolo di una celebre raccolta di racconti brevi di Stephen King ma anche un’immagine dei cicli storici e politici, che si differenzia dall’idea quasi epica nietzchiana dell’”eterno ritorno” per riprendere un famoso aforisma di Primo Levi “Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo”. Così si arriva alla proposta lanciata dal ministro Tria, qualche giorno fa, di tassare di più i consumi per sgravare i redditi, esattamente come proponeva già la Commissione Europea qualche anno fa di spostare il prelievo dai redditi ai consumi e agli immobili. Come anticipato in incipit non è, esattamente, un’idea nuova perché già Giulio Tremonti, in tempi non sospetti, aveva formulato questa ipotesi per rendere il fisco meno distorsivo e diversi economisti hanno già affrontato il problema dal lato teoretico nel passato. Ma è veramente così? Sicuramente nessuno potrebbe pensare che il fisco italiano sia perfetto, oltre a un prelievo fin troppo pesante è strutturato in maniera folle, con troppe scadenze, troppe imposte, troppi balzelli vari, tanto che oltre alla spesa diretta gli oneri per i cittadini e le imprese lievitano sia per il tempo perduto ad espletare tutti gli adempimenti sia per i costi vivi per l’assistenza fiscale. La necessità di una riforma dalle basi, quindi, non è un’opzione ma una necessità che, presto o tardi, andrà affrontata ma anche in questo caso non si parla di un intervento strutturale ma di una rimodulazione dell’esistente cosa che difficilmente potrebbe portare a un miglioramento del sistema.

Partiamo dal presupposto, banalizzando molto il concetto, che le imposte siano un “male necessario”, figlio della tendenza degli esseri umani a riunirsi in gruppi organizzati per massimizzare l’utilità personale e di gruppo attraverso l’erogazione di servizi e che devono essere mantenuti, ovvio che una situazione efficiente comporta che ogni membro del gruppo possa ricevere un’utilità maggiore dal vivere in un’organizzazione rispetto a quella che otterrebbe vivendo da solo. Poiché da ogni imposta discende una modifica del comportamento economico degli individui, non esistono imposte “neutrali”, quindi, è necessario strutturare l’impianto fiscale perché le distorsioni siano minime. Gli effetti delle imposte sui redditi si manifestano del cosiddetto “effetto reddito”, cioè semplicemente le aliquote applicate vanno a ridurre i guadagni ottenuti nel corso del periodo fiscalmente rilevante e il relativo potere di acquisto senza agire sui prezzi.

Stesso discorso avviene per le lump sum tax, le imposte a quota fissa come il canone RAI ad esempio, o le imposte patrimoniali che, però, in mancanza di redditi vanno a ridurre il risparmio e il capitale provocando, di fatto, un impoverimento dei contribuenti. La forma meno distorsiva di questo tipo di imposta è la flat tax che va a colpire, proporzionalmente, tutti i redditi nello stesso modo, l’imposta progressiva, invece, al di là dello scopo sociale e redistributivo che la giustifica potrebbe creare dei disincentivi all’aumento dei redditi e alla produttività, ma questo è un altro discorso. Gli effetti delle imposte sui consumi, invece, possono esplicarsi nel cosiddetto “effetto sostituzione” che si lega all’elasticità della domanda dei beni rispetto al prezzo. Frank P. Ramsey ipotizzando, appunto, una possibile traslazione del prelievo dai redditi ai consumi analizzò questo fenomeno e giunse alla conclusione che le eventuali imposte sui consumi avrebbero dovuto concentrarsi sui beni caratterizzati da una domanda meno elastica al prezzo.

Infatti l’aumento delle imposte sui consumi va, direttamente, a influenzare il livello dei prezzi finali spingendo il consumatore a massimizzare la sua utilità personale scegliendo beni succedanei a quelli normalmente acquistati per ottenere un beneficio vicino il più possibile a quello che si rilevava prima dell’introduzione delle nuove imposte. In questo caso il problema che si manifesta è duplice, da un lato influenzando la domanda aggregata anche dal lato offerta si creerebbero delle criticità, obbligando molti produttori a cambiare o le politiche di prezzo (e quindi riducendo i profitti) ovvero riducendo le masse vendute a favore di prodotti di minor qualità e minor prezzo (riducendo anche in questo caso i profitti) con conseguenze non banali dal lato delle decisioni di investimento e del livello di occupazione e remunerazione dei dipendenti. 

Tralasciamo la questione dell’equità dell’ipotesi poiché anche essa mostrerebbe delle serie controindicazioni perché non solo i beni di lusso mostrano caratteristiche di domanda anaelastica ai prezzi ma anche per beni di prima necessità possono valere le stesse ipotesi arrivando all’assurdo che per sgravare i redditi dal prelievo fiscale si vada a creare un sistema regressivo che colpisca più i redditi bassi rispetto a quelli elevati che, solitamente, vedono i consumi come un peso marginale nel bilancio annuo. A integrazione del modello di Ramsey arrivò il lavoro di Corlet e Hague che, per inserire un sistema di equità, elaborarono una nuova regola basata sul confronto con un bene non tassabile, il tempo libero.

A tal proposito l’idea fu quella di applicare ai beni complementari al tempo libero delle aliquote più elevate mentre ai beni sostituibili ad esso ma complementari al lavoro aliquote più basse in maniera da minimizzare l’effetto sostituzione e rendere più equo il sistema. Anche qui, però, ci si scontrerebbe sia con il problema della possibile regressività delle imposte e della difficoltà di applicazione di un sistema di aliquote differenziate su panieri non esattamente complementari e di difficile definizione unitamente al costo di riscossione che graverebbe, soprattutto, sull’ultimo nodo della catena distributiva prima del consumatore finale. Da questa breve trattazione cosa si può comprendere, quindi?

Innanzitutto che trasferire parte del prelievo sui consumi, attraverso l’Iva o una nuova imposta sui consumi, non è affatto un’impresa agevole, fosse anche perché per garantire lo stesso gettito precedente occorrerebbe applicare delle aliquote finali ben più elevate di quelle attuali generando dei contraccolpi importanti dal lato della domanda tanto da diventare un possibile elemento recessivo del sistema economico e che un’azione simile non andrebbe minimamente a migliorare e rendere più efficiente il sistema fiscale italiano poiché non si verificherebbe alcun intervento strutturale.

In verità l’idea ventilata da Tria si inserisce nella difficoltà di trasformare il sistema Paese italiano e rimodulare spesa e prelievo per minimizzarli senza creare danno all’utilità dei cittadini. Si preferisce, invece di riscrivere le regole e riorganizzare centri di spesa e di prelievo (che, nell’ipotesi ottimale, dovrebbero coincidere), andare a spostare il prelievo da un capitolo contabile ad un altro senza comprendere che prima ancora del prelievo sui redditi, cosa non compresa nemmeno dai fautori della flat tax all’italiana, i punti principali da ritoccare al ribasso sono le accise e gli oneri sull’energia e i carburanti, le lump sum tax esistenti e decisamente onerose per cittadini e imprese (si pensi anche solo ai vari bolli richiesti per questa o quella pratica), i costi della logistica, eccetera… Solo dopo aver risolto queste criticità, che rappresentano i veri ostacoli alla ripresa economica generale, si potrà pensare alle imposte sui redditi.