L’amara rivincita della Terza Età

Il saldo naturale (nascite meno decessi) registra nel 2016 un valore negativo (-134mila) che rappresenta il secondo maggior calo di sempre, dopo quello del 2015 (-162mila). Lo dice l’Istat nella sua ultima analisi demografica. Unica “salvezza” sono gli stranieri, più prolifici di noi italiani, che consentono alla media di rialzarsi. E in questi dati c’è tutto lo spaccato di una società che cambia, con i suoi affanni e le sue discrasie.

Partiamo dalle nascite: si fanno pochi figli. E’ innegabile che su questo dato si riflettono sia la crisi economica con annessa mancanza di prospettive, sia l’egocentrismo di una società basata sul soddisfare “oggi e subito” le proprie esigenze senza avere alcuna voglia di impegnarsi per il futuro. Quanto la prima sia conseguenza della seconda è difficile quantificarlo, ma certo una società che non si riproduce è destinata a scomparire.

A vantaggio di chi? Inevitabilmente di chi vede la riproduzione ancora come un valore. Magari in maniera inconsapevole, travestita da “tradizione”, ma comunque al centro di un progetto di vita, quale che siano le condizioni di base.

La contrazione delle nascite riguarda però sia le donne straniere che quelle italiane. La fecondità totale scende a 1,34 figli per donna (da 1,35 del 2015). Nel 2016 il 19,4% dei bambini è nato da madre straniera, una quota identica a quella riscontrata nel 2015 mentre l’80,6% ha una madre italiana.

Le donne straniere in età feconda, che evidenziano un comportamento riproduttivo più accentuato, hanno avuto in media 1,95 figli nel 2016 (contro 1,94 del 2015). Le italiane, dal canto loro, sono rimaste sul valore di 1,27 figli, come l’anno precedente.

Ed ecco che il teorema della globalizzazione prende forma, con etnie sempre più mischiate, compenetrate, il che inevitabilmente farà perdere le caratteristiche di base di una popolazione. E’ un danno? Non necessariamente, si chiama evoluzione; resta il fatto che è inutile e fuori luogo imprecare contro presunte “invasioni” quando abbiamo già da tempo abdicato alla conservazione della nostra italianità.

Dunque siamo sempre più anziani, e siamo peraltro costretti a lavorare il più a lungo possibile. Anche qui la crisi economica ha il suo peso, e anche qui l’analisi è duplice. Perché avere una vita lavorativa più lunga non vuol dire automaticamente che la società ha ridato un posto d’onore agli anziani, ha rivalutato i capelli grigi. Anzi, è il contrario: finché sei in grado di restare nel processo produttivo hai una qualche dignità, poi diventi solo uno scarto.

Le politiche per la terza età si limitano a qualche circolo bocciofilo o qualche vacanza al mare, poco di più. A queste condizioni, paradossalmente verrebbe da dire: meno male che quel che resta da vivere finito di lavorare non è poi molto..