La variabile Marino che imbarazza il Pd

Chissà che Roma avremmo oggi. Chissà. Ma né il tempo né la storia potranno dirlo, come accade con le cose normali. Nella totale anormalità della vicenda Ignazio Marino-Pd, essendo un unicum nella storia dei sindaci italiani (l’ex primo cittadino della Capitale più che dalle questioni giudiziarie è stato dimissionato dal proprio
partito), non c’è stato né il tempo né lo svolgimento della storia per capirlo.

Marino aveva lasciato intravedere idee diverse dal solito, percorsi non convenzionali per ridare un certo slancio alla città eterna. Traiettorie, diciamo così, ardite, lontane dagli standard seguiti da tutti i suoi predecessori, attenti e non toccare gli interessi consolidati. Marino, come tutte le variabili impazzite, era sostanzialmente un divergente, un cuneo un mezzo agli storici blocchi di potere.

Poteva andare diversamente? Forse. O forse no, se l’assioma di fondo resta quello enunciato, non si sa bene per quale ragione, dal sindaco di Firenze, Dario Nardella. “Col senno di poi non fu un errore, ma una valutazione politica che per molti versi prescindeva dalla vicenda giudiziaria”, ha affermato, interpretando il “pensiero” di Matteo Renzi, allora leader Pd.

Valutazione politica dunque, non questione morale, come amava tanto dire la sinistra ante Renzi. Sia
stata l’una o l’altra cosa, la caduta di Marino è stata essenzialmente figlia dell’iniziativa assunta dal Partito democratico nell'ottobre del 2015. Il tema, tornato di stretta attualità a seguito della recente sentenza della Cassazione sul caso scontrini che ha scagionato l’ex primo cittadino della Capitale, meriterebbe un diverso svolgimento rispetto a quello frettoloso e liquidatorio deciso dal Pd. Perché i dem avevano tanta fretta di consegnare la città al Movimento 5 Stelle (era chiaro a tutti come sarebbe andata) e perché nessuno è disposto ad ammettere l’errore?

“Sono sereno, non provo assolutamente rabbia, ma tristezza per quanto accaduto. Tristezza per Roma che è una città che ho sempre amato e continuerò ad amare e nella quale stavamo cambiando le cose”, ha spiegato Marino, “in pochissimi mesi avevamo chiuso la più grande discarica del mondo, quella di Malagrotta, avevamo aperto una terza metropolitana e pedonalizzato i Fori Imperiali. Avremmo sicuramente risanato economicamente la città, ma questo non piaceva a chi invece, con la città, voleva fare affari”. “Matteo Orfini dice che non deve chiedermi scusa? Ritengo che le scuse potrebbero essere importanti per il Pd ma non me le aspetto perché l'atto di scusarsi è un atto di intelligenza e capacità di autocritica: sinceramente non vedo questo in persone che continuano bambinescamente a tentare di alterare la realtà”.

Un’alterazione, quella di oggi, figlia dell’edulcorazione della realtà di ieri. Il Pd, in quel frangente – più che i 5 Stelle – si è sono dimostrati strutturalmente incapace di cogliere il nuovo, ritenendolo sempre e comunque un frutto amaro, acerbo e privo di sapore. Essere stati per troppo tempo abituati al gusto dolce della melassa, come cifra politica, aveva tolto loro il senso del gusto, rendendo insensibile il palato. I dem, il Pd e il Pci ancor prima, sostanzialmente hanno sempre considerato Roma una cosa loro. Dove la trasversalità dei salotti era la chiave di violino dello spartito da suonare le dissonanze di Marino hanno mandato in tilt i “ragazzi del Coro”.

“Sulla vicenda di Ignazio Marino bisogna dire che abbiamo sbagliato a fare dimettere il sindaco. Dico abbiamo, perché allora ero nel Pd e ritenni giusta l'iniziativa di Orfini. Invece era sbagliata, sia politicamente sia come valutazione degli aspetti giudiziari. Ammetterlo e chiedere scusa serve anche a non commettere più errori analoghi per il futuro” scrive su Facebook, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, esponente dem di primo piano. Un atto, quello del governatore della cosiddetta riserva indiana della sinistra, che merita il massimo rispetto. Anche in politica occorre il senso della misura. Eppure, nonostante l’invito di Rossi, l’ostinazione del Pd nel difendere le scelte di allora rende tutto ancor più drammatico. E’ un po’ come se nel Dna di alcuni esponenti di primo piano del partito guidato da Zingaretti, come Orfini per esempio,  le tracce della metodologia comunista d’antan non siamo mai andate via. Come un fiume carsico riemergono quando se ne presenta l’occasione.

Marino è stata una variabile impazzita. Ma l’impazzimento del Pd, come una maionese di cattivo gusto, nel voler pervicacemente dimettere un proprio sindaco non è stata una variabile. E' stata una scelta. Grazie alle quale non sapremo mai che Roma avremmo avuto oggi.