La partita delle Camere

Il cambio di scena, probabilmente, sarà epocale. Ma visto che l’elettore italiano, non definitelo medio per favore, tende a digerire con lentezza e gradualità le svolte della politica, salvo quelle traumatiche tipo Tangentopoli, ne dovremo parlare a lungo. Però è un fatto che l’agone italiano al momento è dominato da Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ovvero i veri vincitori dell’ultima tornata elettorale.

La loro irruzione sulla scena, frutto di una lunga rincorsa, in qualche modo sposta il baricentro dei punti di riferimento, relegando Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi in seconda fila. Il che non vuol dire che il Cavaliere sia fuori dai giochi, diciamo che è solo in pausa. Diverso il ruolo di Matteo Renzi. La serie di fallimenti elettorali lo hanno costretto a ripensare la sua tattica, arroccandosi dentro al partito per restare visibile fuori. Dunque giocherà di rimessa, cercando di spostare le pedine sulla scacchiera, in modo da pesare ancora nelle trattative.

Logicamente molto, ma non tutto, si capirà da chi sarà eletto ai vertici di Camera e Senato. I lavori in corso, in vista della seduta di venerdì,  stanno delineando vari scenari, tutti plausibili, tutti condivisibili, ma nessuno definitivo. I leader del centrodestra, riuniti a Palazzo Grazioli, hanno insistito sul tema del “percorso istituzionale” in modo da definire gli assetti parlamentari con il “coinvolgimento tutte le forze politiche”. Vecchia liturgia politica, quella dei Berlusconi e soci, che mal si concilia con il nuovo corso. L’idea di fondo è quella di proporre ai gruppi parlamentari “un comune percorso istituzionale che consenta alla coalizione vincente (il centrodestra) di esprimere il presidente del Senato e al primo gruppo parlamentare (il Movimento 5 stelle)quello della Camera, riconoscendo nel contempo in ciascun ramo del Parlamento un vicepresidente a ogni gruppo parlamentare che non esprima il presidente”.

Insomma, la vecchia lottizzazione partitocratica, basata sul manuale Cencelli. Berlusconi vorrebbe portare Paolo Romani, sonoramente bocciato da Di Maio (“è invotabile” ha tagliato corto il capo politico grillini) e questo rischia d’incagliare tutto il ragionamento. Salvini e la Meloni, a parole, danno l’impressione di essere d’accordo, nei fatti lavorano su altri piani. Tant’è il leader della Lega, scartando di lato, preferisce occuparsi di regionali indicando Massimiliano Fedriga quale prossimo presidente del Friuli Venezia Giulia. “Buon lavoro”, ha scritto Salvini su twitter postando una foto insieme con Fedriga, capogruppo della Lega alla Camera nella passata legislatura.

Non a caso le “voci” che parlano di una imminente chiusura dell’accordo tra Movimento 5 Stelle e centrodestra vengono accolte con scetticismo dalle parti del Nazareno. Fonti del Partito Democratico sostengono che l’accordo, in realtà, vacillerebbe. E questo per due ragioni: la prima è che Forza Italia punta ancora forte sulla figura di Paolo Romani. Di questo, al Nazareno, sono sicuri.

La seconda è che un accordo di questo genere “porterebbe quasi sicuramente a un governo poggiato sulle stesse basi e questo aprirebbe una prateria per il Pd”, a cui un governo stabilmente di destra porterebbe in dono tempo e spazio. Tempo per riorganizzarsi, dopo la debacle elettorale; spazio di manovra in quell’elettorato di centrodestra moderato che potrebbe non sentirsi rappresentato da una compagine che abbia al suo interno Salvini e Di Maio. Al di là di tutto ciò, i dem rimangono osservatori e registrano come, in questi giorni, “si stia andando a tentoni. Non per incapacità dei protagonisti”, ammettono, “ma perché la situazione è oggettivamente difficile”. Ed è proprio da qui che potrebbe arrivare la svolta epocale. Se Salvini e Di Maio troveranno la quadra il Pd finirà nel cono d’ombra comunque, nonostante le tirate e le letture di parte.