La crisi della finanza italiana e il neoliberalismo

Sono stati archiviati gli stress test dell’EBA da pochi giorni e, volendo vedere, poche sorprese si sono viste dalla relazione presentata sul settore bancario europeo. Le banche italiane, contrariamente a quanto indicato da molte Cassandre, hanno fatto un’ottima figura generalmente con l’eccezione di MPS che, come molti avrebbero immaginato alla vigilia, è l’unica a non aver passato l’esame. Se si osservasse, poi, la principale banca italiana, Intesa SanPaolo, questa è risultata uno degli istituti più solidi in tutto il continente europeo, cosa, poi, supportata da un report semestrale assai positivo, ben sopra il consensus degli analisti.
Ciononostante, fin dal lunedì successivo, una nuova ondata di vendite si è abbattuta sui titoli del comparto bancario, cosa che ha spinto ancora verso il basso anche gli indici di borsa che, a Milano, sono fortemente influenzati dai Financials che rappresentano il settore più significativo tra le imprese quotate.

La cosa, a livello di logica, è assai strana ma comprensibile in un periodo ribassista e fortemente segnato da un certo grado di sfiducia degli operatori anche sui possibili scenari futuri e sulla tenuta della flebile crescita economica in tutta l’Euroarea. Il caso italiano, però, è particolare: i listini nazionali, infatti, sono soggetti a movimenti ben più significativi, mediamente parlando, rispetto ai corrispettivi esteri, più umorali si potrebbe dire, sia nei periodi di crescita sia in quelli di ribasso. Perché ci si potrebbe chiedere? In questi giorni, sui media, sono apparse due risposte, quasi opposte, al quesito e che, in maniera singolare, hanno una provenienza comune, direttamente dal settore bancario e dai vertici dell’ABI.
Da una parte il presidente dell’Associazione Bancaria, Antonio Patuelli presenta una tesi un po’ particolare, giudicando il suo background di banchiere e di ex vicesegretario del Partito Liberale Italiano, che punta il dito sull’eccesso di liberismo in Italia.

Cosa vuol dire questo? Semplicemente che, oggi, si sta scontando il fio delle privatizzazioni e della deregulation. Il flottante delle aziende, in particolare quello delle banche, sarebbe troppo alto, consentendo così ampi spazi a movimenti speculativi, e che la “piaga” delle vendite allo scoperto va a condizionare il trend rialzista secolare spingendo, invece, verso il basso le quotazioni.

Poco importa che i movimenti speculativi siano più accentuati quando il flottante è ridotto e pochi scambi possono condizionare il mercato, contrariamente alla sua tesi, e ancor meno che le posizioni short permettano di rendere più liquido il sistema e calmierare ogni tipo di eccesso, sia in fase bullish sia in fase bearish, in Italia quello che sta rovinando il mercato è il sistema troppo liberista e l’eccesso di iniziativa privata, come se in uno Paese dove la pressione fiscale supera abbondantemente il 42% a livello nominale lo Stato sia completamente disintermediato e non abbia alcun peso in ambito economico.

Molto più interessante è stata la posizione espressa da Miro Fiordi, presidente del Credito Valtellinese e membro del Comitato Esecutivo dell’ABI, che sul Corriere della Sera, tra le altre cose, affronta il tema degli short in borsa, come Patuelli del resto, ma con un punto di vista ben diverso. Nell’intervista, a una domanda secca sul perché dei forti ribassi sui titoli bancari, dice “Succede perché non ci sono investitori di lungo periodo, il mercato è nelle mani di chi gioca short e queste situazioni diventano occasioni piuttosto ghiotte […]”. In queste poche parole si nasconde l’amara verità sui listini italiani.

A una prima vista sembrerebbe che i due banchieri concordino sulle motivazioni del continuo ribasso dei titoli bancari italiani e dei listini di conseguenza ma, invece, la differenza che un lettore attento potrebbe cogliere nelle parole espresse nelle due interviste è abissale. Da una parte si punta il dito esplicitamente sulle privatizzazioni che hanno tolto una sorta di garanzia di stato all’azione bancaria e alla volontà di aprire al mercato un settore chiave per l’economia lasciando, così, aperto il gioco alla speculazione finanziaria, dall’altro, invece, si intuisce una critica ad un mercato acerbo, in un certo senso sottosviluppato, dove mancano grandi investitori istituzionali, come i fondi pensione ad esempio, che ragionino in ottica di lungo periodo e non di ritorno nel breve, permettendo strategie di investimento di ampio respiro.

Questa è una differenza chiave nell’interpretazione dei fatti, da un lato si manifesta l’idea che senza un controllo statale, politico quindi, non sia possibile stabilizzare il mercato, dall’altro si indica che, nel corso degli anni, vari soggetti, dallo stato come regolamentatore e attore principe sui mercati tramite la politica fiscale alle banche e ai gestori di fondi, non abbiano investito in maniera efficace nella maturazione del mercato finanziario italiano, troppo dipendente dal settore Financials e poco capitalizzato, forse anche per una certa forma mentis nazionale che diffida dei listini azionari e dei titoli per preferire investimenti reali o con un ritorno di breve periodo.

Quest’ultimo è un dramma che non si riflette solo sui listini ma anche sulla struttura stessa delle aziende che risultano, mediamente, sottocapitalizzate, di piccole dimensioni e fortemente dipendenti dal credito per continuare non solo a crescere ma pure solo per pensare alla propria sopravvivenza in un mondo che spinge a una internazionalizzazione degli scambi e a una sempre minore protezione dei mercati interni basata su dazi e limitazioni all’importazione.

Non si può, quindi, pensare di risolvere le criticità invocando un maggior intervento dello stato, che si traduce in un sostegno alle aziende tramite la fiscalità generale già a livelli elevatissimi, ma tramite soluzioni compatibili con il mercato e con una visione di crescita di lungo periodo, dove l’investimento sia orientato alla crescita e non al realizzo di breve periodo, cosa che può succedere solo con una maturazione del settore finanziario che, è bene ricordarlo, non crea né distrugge ricchezza ma la rialloca secondo criteri di massima efficienza per gli investitori ed è su questo punto che occorrerebbe aprire un serio ragionamento.