La crisi dei toscani ruggenti

Anni ruggenti, buona idea. Ecco, se fate una banale ricerca su Internet digitando la voce “Anni ruggenti” scoprirete che la locuzione in questione indica una specifica epoca del XX secolo, ovvero il decennio degli anni venti. Tale periodo storico è stata descritta da cinema, letteratura e musica. Favorito da un fenomeno di grande espansione industriale, poi rifluito nei disastri della crisi del 1929 e del proibizionismo, “ha creato mode e determinato tendenze, praticamente in ogni aspetto del costume e dell’arte del tempo”. Insomma, fermento e rinnovamento potremmo dire.

Ecco perché a qualcuno, con una felice intuizione, è venuta l’idea di accoppiare quella locuzione alla nostra realtà politica coniando il concetto della “crisi dei toscani ruggenti”. Una felice sintesi di metafore assemblate fra loro per dire che Matteo Renzi e il suo giglio magico hanno imboccato quel piano inclinato che rischia di portare alla definitiva parabola discendente.

Certo, proprio nei giorni scorsi c’è stato il Lingotto di Torino, luogo storico e catartico di una certa idea di sinistra che non vuol essere tale, ma sogna l’ecumenismo. Dieci anni fa Walter Veltroni, proprio lì, nel capoluogo piemontese, tenne a battesimo il Partito democratico. Il primo segretario Dem non c’era alla kermesse renziana, dal momento che ha deciso di tenersi fuori dalla contesa congressuale. C’è stato, però, un tema a lui caro: la vocazione maggioritaria del Pd, che Matteo Renzi intende rilanciare proprio mentre il ritorno al proporzionale sembra orientare nella direzione opposta. Ed è proprio in quel proporzionalismo prima Repubblica che gli anni ruggenti del renzismo rischiano di scomparire definitivamente. Come se una nuova crisi del ’29 spazzasse via le azioni del giglio magico.

Più che le inchieste è la politica a mettere la sordina al renzismo. Anzi, un sistema elettorale che favorisce accordi e inciuci, intrallazzi e intese sottobanco. Di fatto, per dirla con un’altra felice locuzione, il renzismo rischia davvero di aver ballato una sola stagione. Stagione di transizione si badi bene, e non di collegamento fra un punto ed un altro. Detto in altre parole gli anni ruggenti dei toscani rischiano di essere rubricati come una variabile indipendente fra Enrico Letta e Paolo Gentiloni, cardini di un potere che perpetua se stesso.

Il Lingotto, dunque, come Tripolina di Matteo Renzi e il resto del giglio magico? Può darsi. Però sarebbe un errore sottovalutare l’attuale peso di Maria Elena Boschi la quale, come il bisonte di Francesco De Gregori della canzone Buffalo Bill che “può scartare di lato e cadere” per poi rialzarsi e fuggire via, tiene in gioco le pedine dei “toscani ruggenti”. Dopo la crisi del ’29 non ci fu il buio ma le resurrezione. In molti, per uscire dalla metafora, considerano la vittoria del no al referendum costituzionale come una volontà di tornare alla prima Repubblica e non come una semplice bocciatura di Renzi e del suo giglio magico.

Il ragionamento ha un suo fondamento. Ma pecca di presunzione. Nel senso che presume che gli italiani abbiamo scelto il modo e non il mezzo, ovvero l’uomo, sul quale viaggiavano le idee bocciate. La realtà, a volte, è più banale e non piace ai raffinati decifratori della politica che vorrebbero essere protagonisti e non semplici comparse. Gli italiani, con il referendum, hanno scelto la semplicità alla velocità, la logica all’apparenza. La sostanza agli anni ruggenti. Soprattutto se declinati in salsa toscana.