La bufala dei paradisi fiscali europei

Quando si parla di Oxfam si pensa sempre al report annuale sulla concentrazione di ricchezza ma, nei giorni scorsi, la Ong inglese è riapparsa sulle pagine dei giornali con la pubblicazione del suo nuovo studio “Off the Hook” che analizza l’impatto dei cosiddetti “paradisi fiscali” in Europa.

Di questi si era già parlato ampiamente su queste pagine, indicando che il termine italiano sia quantomeno ingannevole visto che i traduttori, ai tempi, confusero la parola inglese “haven”, cioè “rifugio”, con “heaven”, cioè “paradiso”. Non esistono, infatti, dei paradisi fiscali, benché sia possibile individuare diversi “inferni fiscali”, ma piuttosto dei luoghi che offrono delle condizioni più favorevoli rispetto ad altri per custodire patrimoni o domiciliare le sedi fiscali delle società e godere di tassazioni agevolate o, addirittura, accedere al tax ruling, che è un accordo ad hoc tra un ente economico e lo Stato che va a stabilire un regime di tassazione ad personam.

Lo studio sostiene che, solo nel 2015, Paesi come Italia, Francia, Spagna e Germania abbiano perso circa 35,1 miliardi di euro in gettito fiscale a causa dello spostamento di profitti delle aziende tra Stati europei, somme che sarebbero, poi, finite per l'80% in Olanda, Lussemburgo e Irlanda.

La chiosa sulla perdita italiana, poi, è magistrale a livello di comunicazione, poiché si indica che solo la Penisola ne abbia registrata una (da notare l'uso di “perdita” non di “mancato introito” che non è esattamente la stessa cosa) da circa 6,5 miliardi di euro che avrebbero potuto permettere l’abbattimento fino al 28% della spesa medica lato cittadini laddove fossero stati dirottati a finanziare il Sistema Sanitario Nazionale.

L’analisi va oltre, spiegando che se l'Unione europea avesse applicato i criteri usati per identificare i paradisi extra Ue anche agli Stati membri, nella blacklist sarebbero finiti pure Cipro, Malta, Olanda, Lussemburgo e Irlanda perché non in regola con il criterio della “tassazione equa”.

Questo è un punto importante, perché si chiederebbe un passo ulteriore verso l’identificazione dei rifugi fiscali, dalla mancanza di compliance a livello fiscale e di anti riciclaggio alla fissazione di aliquote di tassazione minima. In pratica si va a chiedere un’ingerenza non banale nella sovranità degli Stati nazionali travalicando pure i limiti del Trattato in materia di determinazione delle politiche tributarie nel caso di Paesi aderenti all’Ue.

La caratteristica che definisce il “paradiso fiscale”, infatti, è l’opacità fiscale e la mancanza di collaborazione con gli altri Paesi in materia di tasse e di antiriciclaggio, non certo la decisione legittima di mantenere un sistema di aliquote contenute volte a minimizzare il prelievo sui singoli, magari per massimizzare l’utilità di sistema spingendo nuovi investimenti e la nascita o lo stabilimento delle imprese sul proprio territorio, con evidenti ritorni occupazionali, economici e, pure, fiscali sia da imposizione diretta sia da imposizione indiretta.

Non è un caso che uno dei punti di forza che permisero all’Irlanda di uscire dalla profonda crisi che l’aveva colpita anni fa fu la decisione di non toccare la corporate tax (tutt’oggi fissata con un’aliquota flat al 12,5% nonostante il pressing di Bruxelles per elevarla).

Queste sono cose che gli analisti di Oxfam non considerano, così come non considerano quel piccolo particolare che prende il nome di traslazione di imposta. Cos’è? Da dizionario la si può definire come “Processo attraverso il quale coloro che sono tenuti legalmente al pagamento dell'imposta (contribuenti di diritto) trasferiscono in tutto o in parte l'onere ad altri soggetti (contribuenti di fatto), in virtù della variazione del livello dei prezzi generata dall'introduzione dell'imposta stessa.” In pratica le aziende non pagano veramente le imposte girando l’onere sui consumatori finali che le finanzieranno tramite un aumento dei prezzi come è stato reso palese, anni fa, da Apple quando scorporò il “giusto compenso” Siae dal prezzo dei suoi prodotti, giustificando, così, il livello di costo superiore rispetto agli altri stati limitrofi.

Qui si torna al concetto di “tassazione equa” che non è un’armonizzazione verso l’alto dei tributi che persone fisiche e giuridiche sono tenuti a pagare allo Stato, come interpreta Oxfam, ma un sistema di trasparenza e di equità di applicazione dell’impianto fiscale, eliminando di fatto il tax ruling che rappresenta una distorsione di mercato a favore di alcuni che acquisirebbero un vantaggio iniquo rispetto agli altri che non abbiano l’opportunità di accedere al negoziato fiscale.

Partendo da questi presupposti si va alla compilazione delle black list, quegli elenchi dei paesi non compliant a livello fiscale e che oggi, a livello europeo, comprendono Samoa americane, Guam, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini degli Stati Uniti, Aruba, Belize, Bermuda, Figi, Oman, Vanuatu e Dominica mentre altri tre, Barbados, Emirati Arabi Uniti e Isole Marshall, potrebbero rientrarci non avendo dato seguito agli accordi fiscali stipulati.

La lista nera, infatti, ha subito un importante taglio da quando sono entrati in vigore i protocolli Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act) negli Stati Uniti e Crs (Common Reporting Standard) in tutto l’Ocse per lo scambio automatico di informazioni a livello di rapporti bancari, tanto che le isole Cayman o il Principato di Monaco o, ancora, la Svizzera che, da sempre, erano l’emblema del “paradiso fiscale”, hanno perso quelle caratteristiche che ne facevano l’approdo di capitali “neri” o il crocevia del riciclaggio di denaro a livello mondiale.

L’interpretazione di Oxfam, quindi, è ampiamente strumentale e infondata poiché indica come “Paese canaglia”, sempre che si possa usare il termine in questo contesto, sia gli stati dove vige il segreto bancario completo sia quegli stati dove si sia optato per tassazioni ridotte, soprattutto a livello di aziende.

Quest’ultimo caso, invece, non rappresenta un illecito a livello di diritto internazionale; la concorrenza fiscale è un istituto da salvaguardare il più possibile poiché è l’unica difesa per le persone dalle pretese dello stato che, dovendosi confrontare con concorrenti agguerriti, è obbligato a cercare la migliore combinazione possibile tra prelievo fiscale e servizi erogati massimizzando l’utilità per cittadini e imprese e competere sul mercato globale attirando investimenti e capitali.